LUGLIO 1993 - N. 7, PAG. 11 Nel vortice della nuova corrente Da Calvino a Biamonti. Scritti di Mario Bosetti, "Nuova Corrente", n. 109, gennaio-giugno 1992, Tilgher, Genova, pp. 245, Lit 26.000. Ci sono almeno tre ragioni per ritenere Mario Boselli una delle più singolari personalità della critica letteraria italiana. Boselli è l'ispiratore di una rivista, "Nuova Corrente", da lui fondata insieme a Giovanni Sechi nel lontano 1954, in cui ha seguito, passo a passo, tutto lo svolgersi della cultura letteraria degli ultimi trent'anni. La seconda ragione che fa di Boselli un personaggio raro è che non ha scritto alcun libro, non ha mai raccolto i suoi vari saggi, "consumandosi, devotamente, tra giornali e riviste", cosa inconsueta nel panorama della critica letteraria. La terza ragione è che Mario Boselli ha compiuto da poco ottant'anni, un'età riguardevole per chiunque, ma soprattutto per uno che, stando alle cose che scrive, non la dimostra affatto. La prosa di Boselli è N freschissima, è briosa, animata da una curiosità che non sembra esaurirsi neppure nelle conclusioni, sempre provvisorie. Boselli è nato ed è sempre vissuto a Genova, non è dunque un caso che gli autori chiave del fascicolo di "Nuova Corrente" dedicato alla sua opera critica siano proprio due liguri: Calvino e Biamonti. A dire il vero, il numero della rivista contiene anche un testo esplorativo della letteratura italiana degli anni cinquanta e la recensione di Ragazzi di vita, testi ricchi di intuizioni e considerazioni illuminanti, e due scritti del sessanta sul nouveau roman — Butor, Robbe-Grillet, Sarraute — che a distanza di tempo risultano persino preveggenti. Tuttavia l'autore di tutta una vita è stato per Boselli Italo Calvino. A lui sono dedicate la maggior parte delle pagine del fascicolo, quelle più emblematiche, le più penetranti. Le ragioni di questa "lunga fedeltà" sono da ricercarsi non solo nel lavoro svolto da Calvino, a partire dagli anni sessanta — Boselli è velocissimo, rispetto ad altri, a cogliere la direzione in cui Calvino si sta muovendo, sin dalla pubblicazione della Nuvola di smog —, ma anche nel modo con cui il critico guarda alla ricerca dello scrittore ligure. Le pagine the Boselli ha dedicato a Calvino nel corso di un trentennio sono illuminanti; solitudine, costanza e testardaggine, insieme a una imperscrutabile esuberanza, sono i caratteri di questa "fedeltà", come dire: un carattere veramente ligure. Nel Linguaggio dell'attesa, un testo del 1963, a tratti appesantito dall'apparato concettuale che Boselli mette entusiasticamente in campo, è perfettamente delineato il dualismo calviniano, la sua doppia personalità, su cui insisterà la critica di vent'anni dopo; qui è enunciata l'istanza purificatoria di Calvino, l'ossessione che diverrà uno specchio ustorio in Palomar. Al critico risponde Calvino stesso con una delle sue più belle lettere pubbliche, un capolavoro di autoanalisi della propria scrittura. Boselli tenacemente risponde e contrattacca, colpo su colpo, e trova anche il modo di polemizzare con Bàrberi Squarotti che non è d'accordo con lui. Ma le sue buone ragioni non sono tanto nella replica a entrambi, quanto nei testi seguenti, nell'emblematico Ti con zero o la precarietà del progetto del 1969 e soprat- di Marco Belpoliti tutto in L'immaginazione logica di un decennio dopo. Nella presentazione del numero si dice che la critica di Boselli ha due matrici: la critica militante (Boine e Serra) e quella metodologica (Debenedetti, Contini, la linguistica, lo strutturalismo, la critica archetipica e intertestuale). Tutto vero, dal momento che "la ricognizione sullo stile è in genere la porta d'ingresso della sua analisi", ma c'è qualcosa in più nella critica di Boselli, qualcosa che, alla prova dei fatti, sembra esula- re dalle scienze letterarie ed ermeneutiche, qualcosa che questo irregolare delle patrie lettere sembra possedere di suo e che rende sempreverde la sua prosa e il suo approccio agli autori che ama, anche a distanza di decenni. L'anonimo autore della presentazione lo dice, con qualche reticenza ma a colpo sicuro: Boselli possiede il gusto di "sottolineare le istanze di destabilizzazione e di sconcerto, l'opera come sigla della maceria più che della costruzione". Non è qualcosa di pro- grammatico, è il sesto senso che conduce Boselli a cercare là dove gli altri non guardano, a rovistare tra ciò che altri tralasciano. Con che scopo? Non certamente con quello di approdare a un'ideologia letteraria, a una propria indiscussa posizione. Irregolare di gusto, polemista senza maestri, indagatore senza ritegni, Boselli è un critico libero da pregiudizi o da giudizi finali. Forse solo così si possono spiegare le pagine sull'immaginazione di Calvino, le indicazioni sull'emblematica dello scrittore e quelle sull'importanza che i bal-loons — "figuratività elementare", la definisce — rivestono nella poetica dell'autore delle Cosmicomiche. E poi, Boselli vede bene il percorso labirintico in cui si muove Calvino, la forma duale della sua immaginazione, il suo "lavoro per ipotesi", il suo "precipitare nella tromba delle scale", tutte definizioni che sono state riprese da altri, decenni dopo, per spiegare il dualismo dello scrittore, dopo che per tanti anni era parso solo il cantore della razionalità. Anche il tema dello spazio è stato individuato da Boselli come centrale e così rilegge un dimenticato racconto, Dall'opaco, del '71, dedicato al paesaggio ligure. Nell'anno di pubblicazione di Se una notte d'inverno un viaggiatore, Boselli mette in rapporto spazio e lettura, e segnala il rinvio a Queneau e ai suoi Fiori blu. Gli stessi temi che sottendono la "lunga fedeltà" calviniana ritornano con Biamonti, autore su cui si concentra la meditazione di Boselli intorno alla vita e alla morte. In modo simpatetico lo scrittore àz\\' Angelo di Avrigue e di Vento largo è sentito come il cantore di una condizione esistenziale: le rovine non sono una memoria del passato, bensì vissute "dentro". I due testi conclusivi della raccolta sono più ricchi di accenti umorali, di impalpabili suggestioni che non di curiosità. Biamonti è ai suoi occhi di lettore la bandiera di un quotidiano e implacabile esistere, tuttavia anche in questi due testi Boselli non abbandona la sua "poetica dello sguardo", l'attenzione al mondo del visibile che pare apparentare l'autore di Palomar e quello dell' Angelo. Eppure, anche se la poetica delle macerie, il senso della precarietà accompagna tutto il lavoro di Boselli, ne è lo stigma più netto, c'è anche un altro aspetto che marca in modo analogo il suo lavoro di critico. Il modo migliore per cercare di dirlo è proprio quello di rubare una citazione a lui stesso, una nota, in cui Boselli cita a sua volta una frase di Musil: "... l'uomo dotato di un normale senso della realtà somiglia a un pesce che abbocca all'amo e non vede la lenza, mentre l'uomo dotato di quel senso della realtà che si può anche chiamare senso della possibilità tira la lenza e non sa lontanamente se vi sia attaccata un'esca". Libri di Testo Eppur si muove di Adriano Colombo Giovanni Pacchiano, Di scuola si muore, Anabasi, Milano 1993, pp. 223, Lit 20.000. La letteratura del lamento scolastico è un genere ormai stabilmente insediato nel panorama dell'editoria, con una sua intemporale, platonica immobilità, se non vogliamo chiamarla ripetitività ossessiva. Partecipe di questo sfondo comune, il libro di Pacchiano ha peraltro il merito di fondarsi su una documentazione aggiornata e ineccepibile: l'autore, che è preside, conosce a fondo i meccanismi dell'apparato disfunzionale della Pubblica Istruzione e con implacabile meticolosità ne denuncia l'opera metodica di intralcio al lavoro quotidiano, la distruzione sistematica di ogni motivazione educativa. Ancora a suo merito si può ricordare la valutazione equilibrata degli effetti del Sessantotto sulla scuola (che non è poco, di questi tempi) e l'assenza delle rituali recriminazioni sulla mitica Riforma che avrebbe messo a posto la scuola secondaria superiore (vent'anni fa, forse). Al posto delle quali, è apprezzabile l'indicazione della strada dell'autonomia degli istituti: ma quindici righe dedicate a una proposta, su duecentoventi pagine di deplorazioni, sono forse poche. Ecco dunque un quadro "nero su nero" senza sfumature: norme impossibili, rituali ripetuti senza convinzione, presidi oberati di compiti eterogenei, insegnanti poco preparati, mal pagati, frustrati: "Muore di noia, oggi, a scuola, chi insegna". E chi conosce la scuola può confermare ogni particolare. Nient'altro che verità, dunque. Ma è poi tutta la verità? Ho cominciato la lettura di questo libro in treno, tornando da un incontro di "aggiornamento" pomeridiano con un gruppo di colleghe. Hanno fatto lezione la mattina, si è in maggio avanzato, quando notoriamente si infittiscono gli impegni di chiusura dell'anno scolastico; nessuno le obbliga, nessuno le compensa, eppure sono tornate tutte, come hanno fatto periodicamente per mesi. Sono insegnanti esposte a frustrazioni professionali come ogni altro, anzi di più, come chi cerca di lavorare seriamente. Non si esauriscono nel lamento, ma studiano, progettano soluzioni didattiche, all'"esperto" (dio mi aiuti) pongono questioni molto concrete, e per questo molto impegnative teoricamente. Possibile, mi chiedevo sul treno, che di questo nei libri e nei giornali non si parli mai? Eppure nel mio piccolo ho qualche decina di esperienze del genere ogni anno. Possibile che restiamo invisibili? Veramente Pacchiano ha pensato anche a noi: "Meglio, naturalmente, se qualcuno, nel bene, non si riconoscerà in queste pagine", scrive nell'introduzione: "Ma è mia ferma impressione che si possa trattare di meritorie e fortunate eccezioni, che non fanno che confermare la regola". Dove non sai se ammirare di più l'originalità dell'argomentazione o la finezza giuridica di una specie di "norma di chiusura", che suona: tutto quel che non rientra nella presente generalizzazione si deve intendere automaticamente incluso. La rubrica "Libri di Testo" è a cura di Lidia De Federicis Il mare dell'oggettività di Alberto Papuzzi L'esperienza delle cose, a cura di Andrea Borsari, Marietti, Genova 1992, pp. 262, Lit 38.000. "Un'immane distesa di cose si affolla nella nostra esperienza quotidiana". Con questa immagine, che riecheggia non a caso l'immane raccolta di merci marxiana, si apre questo libro eccentrico, che può risultare un utile complemento alla lettura del saggio di Francesco Orlando (Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura-, cfr. "L'Indice" n. 5, maggio 1993). Che cosa rappresenta questa marea che ci circonda quotidianamente "sotto forma di oggetti tecnologici, di beni di consumo, di effetti personali, di arredi ed elementi della casa, della strada e della città, oppure nella veste più ambigua di oggetti artistici o di presenze marginali e desuete"? Ecco l'interrogativo da cui nascono i quindici interventi raccolti nel volume, che rielaborano due serie di lezioni tenute presso la Fondazione Collegio San Carlo di Modena, fra l'autunno del 1989 e la primavera del 1991. Le risposte, naturalmente, sono molteplici, secondo la natura che si attribuisce agli oggetti. Non è facile, di primo acchito, orientarsi nel labirinto di idee, nella congerie di teorie, che il libro mette a disposizione del lettore. Per chi non se ne occupi per ragioni professionali, gli oggetti sono troppo vicini, troppo comuni, perché possano generare riflessioni non casuali, se non quando assumono, in via eccezionale, un particolare significato affettivo e simbolico. Li riceviamo, li acquistiamo, li usiamo, li buttiamo; sono appunto le "cose", gli "oggetti", altro da noi. Il significato fondamentale di questo libro è di dimostrare il contrario: gli oggetti fanno parte di noi, senza gli oggetti noi non esistiamo; non esistono neppure le nostre passioni, le nostre ossessioni, non vedremmo un orizzonte delimitarci il campo e non ancoreremmo la quotidianità a dei valori simbolici. Non si tratta, in sé, di riflessioni nuove: il senso del libro è piuttosto di convogliare su un unico argomento — la "cosa" che si estende dal massimo della concretezza al massimo dell'astrazione, come scrive Nadia Fusini — più o meno acute e provocatorie letture e riletture di Marx, Heidegger, Vernant, Feyerabend, Simone Weil, Merleau-Ponty, Eco e Perec, per fare solo qualche nome. Un gruppo di interventi gira intorno a questioni flosofiche, partendo dalla classica domanda heideggeriana "Che è una cosa?", che apre un abisso. Si ripropone il problema di uno statuto delle cose nel mondo moderno: che cosa sia la "piattità" di un piatto o la "pennità" di una penna (Franco La Cecia). Vale a dire, quali siano le categorie di una "cosalità" che prima di essere pensata è "vissuta", una questione che ci porta all'individualismo che marchia il rapporto con le cose (Alfonso M. Iacono) e al "puro nulla" delle ossessioni suscitate in noi dalle cose (Giorgio Franck). Interrogarsi sui significati degli oggetti materiali "significa interrogarsi sul rapporto che lega persone e cose nella vita quotidiana" (Luisa Leonini). Ecco gli oggetti visti e sentiti attraverso i sentimenti, decantati nei sentimenti, rileggendo in una nuova chiave la dicotomia tra corpo e spirito (Chiara Zamboni) e riconoscendo nell'oggetto la "cosa materna", madre dei desideri (Nadia Fusini). Alle riflessioni filosofiche si collegano gli interventi sulla percezione estetica e simbolica degli oggetti. Ciò che appare la "quintessenza della materialità" si rivela invece "il punto di ancoraggio dei sistemi simbolici che permettono di classificare e interpretare la realtà" (Andrea Semprini). Si entra nell'analisi degli oggetti come fatti estetici: le differenze tra oggetti d'arte e artigianali (Brigitta Nedelman), il problema dell'immagine in Simone Weil (Wanda Tommasi), la capacità dell'arte di "salvare le cose" (Stefano Zecchi). D'altronde l'immagine è il vero, unico oggetto di oggi, secondo lo scrittore Daniele Del Giudice; oggetto anche di "investimento fantastico". La funzionalità superflua degli oggetti in un mondo nevrotizzato dal consumismo è la prospettiva di Remo Guidieri. Curiosissimo il saggio di Ezio Manzini che prende le mosse dal confronto fra l'acciaio e la plastica, per esplorare i significati reconditi delle materie polimorfe. Ma tutte le prospettive vengono ro- ' vesciate nel contributo dell'antropologo Marshall Sahlins, che ci descrive gli oggetti occidentali con gli occhi delle popolazioni del Pacifico, contrapponendo l'indigeno developman ("svi-luppuomo") al nevrotico development della Coca-Cola e dei MacDonald.