riNDICF 10 ■■dei libri del mese■■ Forum La strage di stato a cura di Marco Revelli e Sonia Vittozzi GIAN GIACOMO MIGONE: Vi ringrazio per la vostra presenza qui, nella redazione de "L'Indice", a Torino. Per quanto riguarda gli autori de La strage di stato si tratta di una sorta di prolungamento della militanza nel tempo e nello spazio che molto apprezzo. Rispetteremo anche il vostro anonimato, motivato dal desiderio di mantenere, ancora oggi, il carattere collettivo e militante del vostro ruolo di autori. Perciò d'ora innanzi chiameremo i due autori pre- senti, rispettivamente, il Giornalista e il Professore, mentre l'autore assente (a causa di una malattia tutt'altro che diplomatica) sarà denominato il Militante. Ringrazio pure Ibio Paolucci, giornalista de "L'Unità", che abbiamo invitato per la sua competenza e la sua cono- scenza diretta degli avvenimenti che discuteremo (se non sbaglio, era presente a Milano in quegli anni). Sono pure presenti Franco Ferraresi e Marco Revelli, nella loro doppia veste di redattori de "L'Indice" e di studiosi della destra. La partecipazione mia sarà, presumibilmente, più silenziosa anche se vorrei spiegare brevemente le ragioni che ci hanno spinto a ridiscutere un libro a vent'anni dalla sua pubblica- zione. La grande quantità di libri, interviste, articoli di giornali — pubblicati, secondo una logica un poco demenziale, nell'anniversario del Sessantotto — parlano quasi esclusiva- mente di studenti, di gruppi politici di origine studentesca e di terrorismo, con un accostamento non privo di significato politico. Credo che, da questo punto di vista, sia importante passare dalla memorialistica a un tentativo di storia politica. Non dobbiamo cioè dimenticare che gli anni che vanno grosso modo dal '68 al '76 costituiscono la fase acuta di un conflitto di potere nel nostro paese. Abbiamo avuto una situazione di stabilità che è durata grosso modo dal '47 al '68 — anche se naturalmente vi si possono rintracciare i prodromi di quello che è successo dopo —, la quale poi si è rotta. È stato detto pochissimo sulle ragioni della successiva contestazione che riguarda questi anni, attraverso un movi- mento solo inizialmente studentesco (mi riferisco a fatti operai e sindacali, ma non solo a quelli) che ha messo in discussione in maniera radicale l'assetto di potere preceden- te. E che ha provocato poi delle risposte in parte di tipo repressivo, in parte di manipolazione di realtà sociali esi- stenti. Richiamarsi a questo tipo di contesto storico è secondo me fondamentale. E credo che sia anche fondamen- tale raccogliere delle testimonianze, non solo riferite appun- to al '68 studentesco, ma a fatti che consentono di ricostrui- re il rapporto dialettico movimento-repressione, con la con- sapevolezza dei limiti di fonti di questo tipo. È per questo che noi proponiamo una rilettura di questo libro, sul cui merito si possono avere varie opinioni che io spero verranno fuori nel corso di questo dibattito, ma che certamente in quegli anni ha posto questo problema. Vi è un rapporto movimento del '68 - terrorismo che non può essere eluso, ma vi è anche un rapporto poteri occulti - manipola- zione del movimento-terrorismo — trattato da un recente libro di Giorgio Galli — che è rimasto nell'ombra. A me sembrerebbe un modo ovvio per cominciare, che gli autori facessero un po' di autobiografia e collocassero all'interno di questa autobiografia il modo in cui è nata la decisione di scrivere il libro, e il modo poi in cui è stato scritto. IL GIORNALISTA: La prima cosa che mi viene in mente: la notte del 12 dicembre (io lavoravo allora a "Vie nuove") dopo che decine di persone avevano perso la vita, a causa della bomba collocata nella sede centrale della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano. Riunione per cercare di capire cosa era successo. C'erano giornalisti di altri giornali, avvocati, intellettuali in genere, perché già si pen- sava che si trattasse di incominciare a lavorare con uno stile diverso da quello che ognuno di noi praticava nel suo lavoro tradizionale. Mi pare che già da qualche settimana, se non da qualche mese, era sorto, con sede presso il circolo Turati di Milano, il cosiddetto "movimento dei giornalisti demo- cratici per la libertà di stampa e la lotta contro la repressio- ne" (questa era la sua dizione esatta). Perché, appunto, le bombe di piazza Fontana, come voi ricorderete, erano state precedute sia da altre bombe, sia da un clima generale in cui il termine "vigilanza" quantomeno era abbastanza ricorren- te. Proprio riprendendo in mano questa prima edizione de La strage di stato leggevo: "1969, un attentato ogni tre giorni". Dico! Le abbiamo dimenticate queste cose, ma doveva essere un po' pesante la situazione. E da lì siamo passati a formare questo gruppo un po' curioso, che è nato... come? Dillo tu. IL PROFESSORE: Per me il fatto fondamentale fu la vicenda Pinelli. Per me e per molti altri. Noi avevamo seguito la contestazione, vi avevamo partecipato anche attivamente, in ruoli non studenteschi. Facevamo attività legata al sindacato. Fondamentalmente tutto incominciò con il 12 dicembre, e con la morte di Pinelli. Pinelli era precipitato da una finestra della questura di Milano, nel corso di un interrogatorio; e la spiegazione ufficiale della sua morte era stata quella di un suicidio dettato dal rimorso per aver preso parte alla strage. Noi conoscevamo Pinelli, perché alla moglie affidavamo i nostri lavori da battere a macchina; vi fu perciò il bisogno di cercare di stabilire la verità. Anche perché, oltre al fatto della morte di Pinelli, c'era il tentativo di infangarne la memoria. E, oltre al fatto personale, c'era la utilizzazione strumentale, come copertu- ra ad una strategia precisa, che noi percepimmo subito, di svolta a destra o di tentativo di colpo di stato. G.G.M.: Scusa, P., una piccola precisazione. E un errore della mia memoria che Pinelli fosse abbastanza vicino a certi ambienti Cisl milanesi? P.: No, Pinelli era vicino dal punto di vista della cono- scenza personale. Questo senz'altro. FRANCO FERRARESI: E tutta la sociologia del lavoro di Milano, dell'università Cattolica, quella che è diventata il brain trust di Camiti, dava i suoi lavori a battere a macchina alla Licia Pinelli. P. : E il Pinelli partecipava attivamente, dopo la fine del '68, quando ci furono le cariche della polizia e la dispersione del movimento, a quel tentativo di aggregazione che aveva- mo fatto noi (fra l'altro avevamo messo le tende davanti alla Cattolica). Pinelli era uno degli interlocutori che arrivava quotidianamente per discutere. C'era con lui, quindi, un rapporto diretto e personale: questo era l'elemento fonda- mentale. Il quale portò un gruppo di amici a cambiare quasi mestiere, in quegli anni: cioè ad accompagnare, diciamo meglio, la ricerca scientifica con il tentativo di fare indagini, e analisi dei dati che a mano a mano emergevano, utilizzan- do gli strumenti scientifici di cui si disponeva. Ma soprat- tutto a cercare di capovolgere l'immagine ufficiale che stava emergendo, attraverso un rapporto costante e frequente con i giornalisti. Ritenevamo che l'intervento per mantenere pulita la memoria di quest'uomo — c'era la famiglia, non lo dimentichiamo, c'erano la moglie e le due figlie molto piccole che noi conoscevamo — facesse tutt'uno con il tentativo di dare un contributo di mobilitazione. MARCO REVELLI: Quindi si può dire che l'impegno politico e l'impegno etico si coniugavano molto strettamen- te? Non c'era solo la politica, c'era anche altro, no? P.: Noi eravamo impegnati politicamente, ma sul terreno sindacale essenzialmente, non sul terreno partitico. Certo inizialmente la spinta fu etica. Questo penso che è indubita- bile. E a mano a mano acquistava una dimensione politica più netta; a mano a mano che i dati, o le interpretazioni che ne emergevano, sembravano configurare un momento di svolta, nel quale occorreva mobilitarsi tutti. G.: Un momento; vorrei precisare che se il loro impegno si può definire etico-politico, nel caso mio, o anche del Militante, se posso parlare per bocca sua, lo definirei piutto- sto politico-professionale. Perché poi il mio mestiere era quello di fare il giornalista; M. era già impegnato nella controinformazione — non dimentichiamo questo concetto che allora era fondamentale. Forse anche per ragioni di diversa matrice politico-culturale, io non mi ponevo tanto problemi di tipo etico quanto invece di intervento politico attraverso il mio mestiere. G.G.M.: Semmai di etica professionale... G.: Sì, se vuoi. Comunque non è con questo che io voglia respingere l'aggettivo "etico", perché se c'è un aggettivo unificante in quel momento, è sicuramente questo. P.: Veniva utilizzata la competenza professionale, con i particolari contributi che essa era in grado di dare. Ma fondamentalmente, quando ci si mette a fare un lavoro di questo genere — a fare i poliziotti, a fare gli avvocati, o a fornire le schede ai giornalisti evidentemente ci si pone molto al di là del concetto di professionalità, la quale valeva piuttosto come sfondo di serietà e di rigore, come uso degli strumenti di analisi i più razionali possibile, i meno legati ai movimenti... G.: Vediamo di ricostruire come è nato questo nucleo militante. P., che era un punto di riferimento per chi faceva il giornalista, comincia a essere frequentato costantemente, come da altri giornalisti, anche da me. E lì succede qualche cosa, che io, francamente, non ricordo: come diavolo ci è venuta in mente l'idea di buttarci in questa avventura, non 10 so bene. P.: Diciamo che non è nata il 12 dicembre: ciò che è nato 11 12 dicembre, almeno per me, immediatamente fu il co- minciare a riunire, sul caso Pinelli, energie per fare due tipi di lavoro: raccolta e sistemazione di dati — e quindi anche indagini, in maniera brutale e poliziesca — e iniziative per rovesciare l'opinione pubblica. Riunire dei giornalisti e fare delle conferenze stampa, dare delle informazioni per comin- ciare a ribaltare l'immagine del "complotto" fatto da questi poveracci di anarchici della Ghisolfa. Questa fu la genesi, almeno per me. G.G.M.: Che giudizio, che impressione avevate degli anarchici, come li conoscevate? P.: Il giudizio che si dava era di persone emotive per un verso — questa era anche la definizione della moglie di Pinelli, che su questo punto era una roccia — e, in secondo luogo, di ambienti che erano talmente allergici a ogni forma di strutturazione, a ogni forma di organizzazione, sentendo la presenza o l'alone dell'autorità, che potevano indubbia- mente, detto brutalmente, anche subire delle infiltrazioni. La nostra ipotesi iniziale fu infatti quella di una utilizzazio- ne, magari non saputa, non voluta. Non che questi avessero voluto complottare — assolutamente, questo non ci è mai passato per la testa; però, indubbiamente, era un gruppo, una struttura tale che poteva venire agita dall'esterno. G.G.M.: Perché non vi veniva in mente che potessero complottare? P.: Conoscendo un po' dall'interno questo ambiente, ci sembrava assolutamente una cosa fuori del mondo. Bisogna avere la capacità di pensare certe cose, e bisogna avere una struttura che era invece assolutamente insussistente in que- sto gruppo di persone. G.: Vorrei raccontare a questo proposito un episodio che mi preme, perché sottolinea l'approccio diverso che c'è stato da parte di ciascuno di noi. In quelle settimane io sono andato a rispulciare una vecchia storia abbastanza simile, di cui avevo anche trovato il protagonista. Siamo nel 1920 e c'è a Milano il famoso attentato del Diana — che era stato addirittura preceduto da un altro attentato, di cui poco si parla, contro il re Vittorio Emanuele II. Il presunto colpe- vole era ancora vivente nel 1969, era un vecchio militante del partito comunista. Io l'avevo recuperato, intervistato, ed era stata un'esperienza straordinaria vedere le somiglian- ze che esistevano, sia dal punto di vista dell'organizzazione dell'attentato, sia dal punto di vista delle finalità politiche: così come era necessario allora a Mussolini poter indicare nei comunisti i barbari assassini che cercavano di uccidere l'amato re, veniva facile un paragone con l'identificazione degli anarchici come capro espiatorio, che nel 1969 poteva servire a una certa politica reazionaria o conservatrice. P.: Comunque, man mano che la nostra inchiesta prose- guiva, emergevano delle cose molto più grosse delle vicende personali, per quanto tragiche, e cioè molte implicazioni politiche o presenze politiche estremamente preoccupanti. Ma debbo anche dire che né io né molti altri avevamo intenzione di andare avanti su questa strada perché, franca- mente, ci sembrava ridicolo che noi ci mettessimo a fare anche i poliziotti, e assolutamente spropositato. Quindi, in realtà, noi tentammo a più riprese di passare la palla ad organismi, partiti, persone che avevano strumenti e mezzi, o che avrebbero dovuto averli per procedere in un'azione di questo genere. Il punto di fondo è che normalmente non abbiamo mai avuto ascolto. Normalmente queste cose veni- vano ascoltate anche con preoccupazione, ma non sono state mai raccolte. In qualche modo noi siamo stati costretti a proseguire su una strada che assolutamente sembrava non appartenerci, esclusivamente perché le strutture, cioè gli elementi organizzati che erano in grado di fare seriamente un lavoro di questo genere a tutti i livelli, sia al livello della ricerca sia al livello ovviamente politico, in realtà hanno sempre rifiutato. E hanno naturalmente anche visto in alcuni di questi fatti, di questi personaggi, una tale presenza inquietante che, come dire?, li spingeva a starne lontani. Personaggi... voglio dire i Valpreda, gli anarchici, tutto questo mondo. Lo stesso Pinelli: perché, certamente, vi fu sì un moto di simpatia, ma insomma la ipotesi che potesse essere in qualche modo coinvolto era abbastanza comune. F.F.: Crédo che questo discorso che faceva P. sull'aboli- zione dei confini disciplinari, della specializzazione, sia importante. Sarebbe interessante fare una ricostruzione storica di come si sia cominciato a usare l'aggettivo "demo- cratico" vicino al nome di diverse professioni: cioè a parlare di avvocati democratici, di giornalisti democratici, di medi- cina democratica, di magistratura democratica, di professo- ri democratici... Era allora una contraddizione in termini. Perché la cultura prevalente affermava che le professionali- tà sono politicamente neutrali. Il che porterebbe, appunto, a rimettersi al tecnico, a dire che c'è il magistrato che deve fare le indagini. Figurati se un professore di filosofia greca antica, uno che ha studiato i presocratici, deve mettersi a fare le indagini. IBIO PAOLUCCI: L'intento, sicuramente, era quello di presentare al paese un'altra verità, di fare una "controin- chiesta". Allora da questo punto di vista sarebbe interessan- te, prima ancora di svolgere altre considerazioni, e per evitare anche il pericolo di esaminare i fatti con gli occhi di oggi, sapere come si è proceduto, come si è lavorato. P.: Si cominciò con lui (G.) e con altri — ma soprattutto con lui — a fare un'analisi di tutti i fatti, degli articoli, ma s>