BORINGHIERI NOVITÀ' HARALD FRITZSCH GALASSIE E PARTICELLE principio e fine dell'universo Superuniversale 267 pp. 55 ili. L. 24 000 FRITZ SAXL LA FEDE NEGLI ASTRI dall'antichità al rinascimento Saggi 520 pp. 279 ili. L. 60 000 CARL GUSTAV JUNG COSCIENZA INCONSCIO E INDIVIDUAZIONE Saggi 143 pp. 24 ili. L. 18 000 CARL GUSTAV JUNG OPERE VOL. 10 TOMO 1 civiltà in transizione: il periodo fra le due guerre 466 pp. L. 70 000 ALBERT J. AMMERMAN LUIGI L. CAVALLI - SFORZA LA TRANSIZIONE NEOLITICA E LA GENETICA DI POPOLAZIONI IN EUROPA Saggi scientifici 210 pp. L. 25 000 H. RONALD PULLIAM CHRISTOPHER DUNFORD PROGRAMMATI AD APPRENDERE saggio sull'evoluzione della cultura Serie di etologia e psicobiologia 151 pp. L. 20 000 DIZIONARIO DI ECONOMIA POLITICA diretto da giorgio lunghini con la collaborazione di mariano d'antonio VOL. 10 CICLO COSTO UTILITÀ 238 pp. L. 28 000 CLAUDIO NAPOLEONI DISCORSO SULL'ECONOMIA POLITICA Serie di economia 146 pp. L. 18 000 ALDO CAROTENUTO L'AUTUNNO DELLA COSCIENZA ricerche psicologiche su pier paolo pasolini Lezioni e seminari 118 pp. L. 16 000 OPERE DI ANNA FREUD vol. 1 1922-1943 vol. 2 1945-1964 vol. 3 1965-1975 nuovamente disponibili in libreria N. 3 pag. 19 MB Varianti e costanti dei sistemi antichi di Lucio Bertelli Moses I. Finley, La politica nel mondo antico, Laterza, Bari 1985, ed. orig. 1983, trad. dall'inglese di Elio Lo Cascio, pp. VIII-229, Lit. 30.000. Con sorprendente tempestività, a pochissima distanza dalla sua pubblicazione in Inghilterra, l'editore Laterza presenta la traduzione dell'ultima opera dello storico americano, trapiantato a Cambridge. Finley raccoglie qui i testi, rimaneggiati e trasformati in capitoli di un'opera complessiva, di conferenze tenute a Belfast e a Copenhagen tra 1*80 e 1*81. In buona parte i temi sono l'esito di una ricerca che lo storico americano va conducendo da una ventina d'anni a questa parte e i cui risultati parziali sono già patrimonio comune, anche se talora contestato dalla storiografia antichistica. E, come si è verificato in passato all'apparire dei suoi lavori sulla democrazia antica, sulla schiavitù e l'economia del mondo classico, anche con quest'ultima sua opera F. non mancherà di suscitare vivace dibattito non solo in virtù della sua eterodossia metodologica, ma anche per il carattere di libro di battaglia che egli conferisce al suo lavoro volendo insieme rispondere a critiche rivoltegli per certe sue passate posizioni e passare a un vaglio critico, talora tagliente, interpretazioni tradizionali e autorevoli della politica antica. Già la stessa definizione di "politica" — o meglio di politics nell'accezione politologica anglo-americana — suonerà inconsueta a un pubblico abituato a concepire l'area della politica antica inquadrata storicamente entro precisi assetti costituzionali e istituzionali, con l'attenzione rivolta soprattutto alle personalità dei leaders e ai movimenti o gruppi politici da essi rappresentati. Per F. infatti la "politica" è qualcosa di più eterogeneo e diffuso in quanto è l'insieme di "scienza e arte del governo", di "attività politica", di "modi, formali ma anche informali, in cui si esplica un'attività di governo e se ne determinano i processi decisionali", nonché dell'"ideologia che sta dietro all'operato di un governo" (p. VII). Se si tien conto poi che di queste pratiche della politica F. intende occuparsi "in termini di mutuo confronto" tra Grecia e Roma, non gli si può dar torto se lamenta l'assenza di una trattazione di "questo tema" che "abbia le dimensioni di un libro": infatti è difficilmente immaginabile la mole di un tale libro che affrontasse l'argomento nella prospettiva storiografica tradizionale con adeguata analisi dei documenti e delle singole situazioni storiche. Le delimitazioni in ordine ai contenuti e alle aree cronologiche che F. introduce in questa quasi sterminata materia, non conseguono tanto dall'ovvia consapevolezza dei propri limiti di competenza, quanto da una scelta di metodo che ha un duplice risvolto, polemico e insieme ideologico. Ciò che F. intende per politics non si identifica con la prassi e l'ideologia politica di qualsiasi aggregato statale, ma soltanto con quella attuabile in "stati, in cui si perviene a decisioni vincolanti attraverso la discussione e il dibattito e infine al voto" (p. 78). Perciò regimi monarchici e tirannici — e altre formazioni di tipo "etnico-tribale" — in Grecia, e tutta la storia politica di Roma imperiale vengono programmaticamente esclusi da F. dal quadro della ricerca, in quanto impolitici nella misura in cui è impolitico il principio autocratico che li domina (quod principi placuit legis habet vigorem a Roma) oppure sono considerati "estranei al tessuto della polis" (le tirannidi greche). Dato lo stretto ed essenziale legame tra "politica" e momento collettivo della decisione, è ovvio che la categoria storica di "mondo antico", la cui genericità di impiego era stata altrove imputata a F., subisca un'ulteriore delimitazione cronologica all'interno della quale soltanto e adattabile quella formulazione della "politica" in senso stretto: perciò il "mutuo confronto" tra Grecia e Ro- stare non è naturalmente il diritto dello storico a scegliersi il modello di società o di politica che gli è più congeniale, quanto la compatibilità di questa formula della "politica" con la ricerca storica in generale, in quanto F. non limita la validità di essa al solo "mondo antico", ma anzi la deduce dall'esperienza moderna e la ritiene universalmente efficace: sorge infatti la legittima curiosità di sapere come lo storico americano valuterebbe le opere che hanno per come struttura comune al mondo greco e a quello romano-repubblicano, sia nella classificazione dei suoi elementi fondamentali: questa scelta metodica di chiara ascendenza webe-riana, corretta con l'esperienza della politologia americana, era in un certo senso obbligata sia per l'opzione dell'analisi comparata della "politica" in Grecia e a Roma sia per il rifiuto della prospettiva storico-costituzionale. Ma anche questa scelta non va esente da rischi, quali per esempio l'inadeguatezza del modello — ottenuto per estrapolazione dai dati concreti di due realtà politiche così diverse come quella greca e quella romana — quando venga messo a confronto diretto con i fatti sin- Tucidide visto da Finley di Adriano Pennacini tucidide, La guerra del Peloponneso, Rizzoli, Milano 1985, introduzione di Moses I. Finley, trad. di Claudio Moreschini, pp. 1510, Lit. 28.500. La B.U.R. pubblica una notevole edizione delle Storie di Tucidide, avvalendosi del testo curato da R. Weil e da Jacqueline de Romilly nel 1967 per Les Belles Lettres e della traduzione di Claudio Moreschini (1963, 1967) rivista da Franco Ferrari, con note e bibliografia di Giovanna Daverio Rocchi. Inoltre vi appare per la prima volta in versione italiana l'introduzione composta da Moses I. Finley per la traduzione inglese delle Storie pubblicata nei Pen-guin Books (1954, 1972). Il saggio di Finley contiene un ritratto di Tucidide e un esame della sua opera, condotti con passione e curiosità; alla persona di Tucidide Finley dedica un interesse vivo e, appunto, personale, che deriva dalla visione elitaria della storia, della cultura, della società, in base alla quale protagonisti sono non soltanto gli attori delle grandi imprese — quelle sole che meritano la memoria degli storici —, ma anche gli autori di grandi opere: "Questa guerra è in realtà famosa per l'uomo che ne parlò". Da una parte dunque una storia fatta dai grandi, dall'altra una storiografia che dedica alla persona dei grandi, ai grandi personaggi un interesse intimo, diretto alla descrizione del carattere o addirittura alla ricostruzione delle vicende dell'anima. Così Finley guarda a Tucidide: "Persona di poco spirito, pessimista, scettica, profondamente intelligente, fredda e riservata, animata però da tensioni interiori che a volte si aprivano un varco attraverso il tono impersonale del-sua scrittura". Quanto all'opera, Finley vi ravvisa la volontà razionale di cogliere le idee generali che sottostanno alle azioni umane nella politica come nella guerra; in conclusione, di passare dal particolare all'universale, dal singolo fatto concreto ai principi generali che lo spiegano. In questo modo mi pare che Finley suggerisca d'intendere la definizione che Tucidide dà della sua storia come di un possesso che vale per l'eternità. Ma Tucidide in realtà ha scritto "se quelli che vorranno investigare la realtà degli avvenimenti passati e di quelli futuri (i quali, secondo il carattere dell'uomo, saranno eguali o simili a questi), considereranno utile la mia opera, tanto basta. Essa è un possesso che vale per l'eternità più che un pezzo di bravura, da essere ascoltato momentaneamente". Nell'età in cui visse Tucidide alla comunicazione orale delle opere letterarie (Erodoto leggeva le sue Storie in pubblico davanti ai cittadini di Atene) si sostituì la comunicazione scritta: una fruizione intellettuale, ripetibile senza limiti o restrizioni di sorta, sostituì la performance orale e la ricezione aurale e momentanea, da cui non deriva un incremento di sapere, ma solo il piacere estetico o della percezione. Queste considerazioni legate alla cultura materiale consentono di frenare e moderare l'impeto spiritualistico che per decenni ha investito e occupato l'esegesi tucidi-dea, attribuendosi il monopolio del concetto di eterno e della sua interpretazione. Assai utili tutti gli strumenti offerti per una lettura colta e illuminata: cronologia degli avvenimenti, giudizi critici (tra cui Arnaldo Momigliano, Santo Mazzarino, Luciano Canfora), 20 pagine di bibliografia generale e specifica, premessa del revisore, note puntuali piene di utili informazioni e commenti. La traduzione ma avrà come limiti rispettivamente la metà del VII secolo a.C. e le conquiste di Alessandro Magno, per la Grecia, il periodo tra V e I secolo a.C. per Roma. Questa rigida demarcazione dei confini cronologici della "politica" non ha più nulla di sorprendente se si considera che la scelta del contesto istituzionale nel quale F. pretende di vedere operanti le sue procedure, non deriva dalla natura della prassi politica antica — la quale, per inciso, comportava arte di governo, attività politica formale e informale, processi decisionali di vario tipo anche nei regimi autoritari — ma al contrario dalla netta vocazione liberal dello storico americano, secondo la quale un'attività politica in senso proprio si dà soltanto quando "ogni cittadino ha delle decisioni politiche da prendere" (p. 44) ed è prevista nel sistema la sua partecipazione, più o meno diretta, più o meno efficace, al processo decisionale. Ora da questi postulati derivano alcune conseguenze piuttosto inquietanti. Quello che si vuol conte- oggetto la politica sotto regimi autoritari, come il fascismo, il nazismo, lo stalinismo e affini. Storie di fantasmi, forse? Con riferimento più diretto al campo di indagine scelto da F. gli esiti non sono meno preoccupanti per l'inevitabile — e ulteriore — riduzione dell'orizzonte storico cui la formula può applicarsi: infatti, pur dichiarando preliminarmente di voler prendere in considerazione i regimi più rappresentativi — e meglio documentati — della politica antica (Atene democratica, Sparta, Roma repubblicana), F. è poi costretto a riempire il suo quadro con i dati ben noti di Atene e di Roma nel periodo della repubblica. Il "tradizionalismo" cacciato dalla porta principale rientra per quella di servizio: conseguenza del resto cui era difficile sottrarsi partendo da quel ristretto osservatorio della "politica". L'altro aspetto dell'opera che merita attenta valutazione è l'opportunità dell'uso di modelli "idealtipici" sia nella definizione della città-stato, goli, di cui dovrebbe costituire la chiave interpretativa; oppure la sua riduzione a ombra evanescente, poco efficace dal punto di vista ermeneutico, quando il suo compito di struttura omologa deve ricoprire situazioni ed eventi tra loro difformi. È vero, come sostiene F., che sia in Grecia sia a Roma trova realizzazione l'"importante verità" scoperta da Aristotele che la città si regge sulla divisione tra "ricchi" e "poveri" e sul precario equilibrio tra queste due "classi", ed è altrettanto vero che lo stato greco e romano non si identifica né con quello ideale immaginato dalla teoria politica antica né con quello invocato dalla "mistica" statalistica moderna (Wilamowitz, Eh-renberg, ecc.) sotto forma di emanazione dell'interesse collettivo e di ipostasi di una legge super partes: F. rispetto a queste interpretazioni — già del resto ampiamente superate — ha buon gioco sulla scorta delle stesse fonti antiche — Aristotele primo