N. 8 pag. 10 minio cattolico (nei quali era più facile distinguere) come, e a maggior ragione, di quelli post-boom e attuali. Questo è un giudizio a posteriori, astratto e dunque facilone. La diffusione della cultura, élitaria come di massa, compresa quella universitaria, è una parte consistente e obbligata di una riproduzione di poteri di classe e del suo altrettanto obbligato ammodernamento. Se oggi possiamo riconoscere tutti i meriti di Vittorini, il vitale entusiasmo messo a servizio dello sviluppo di un'industria della cultura pronuba di democrazia, non possiamo certo reagire allo stesso modo nei confronti della situazione presente. Cos'è cambiato, infine? Scomparsa la spinta concomitante, del potere e della sinistra, verso l'affermazione di un'industria della cultura strumento di consenso o di democrazia a seconda dei punti di vista, ci pare oggi che quest'industria si sia ridotta alla sola opzione del consenso da parte del potere, senza un politica contrastante della sinistra e senza progettualità davvero diversa, anche nelle sue frange marginali. Chiaro o implicito, Vittorini un progetto lo aveva, culturale e sociale. Noi — per dire gli attuali "funzionari" della cultura, istituzionali o no, centrali o periferici, di editoria o di università o di rai-tv o di enti locali — non l'abbiamo. Vittorini è tra coloro che hanno regalato sia a noi che al "sistema" un assetto più ampio e più libero dell'informazione e della cultura, ma di esso si direbbe che non abbiamo saputo e non sappiamo cosa fare. La spinta che ha mosso Vittorini non era in reale contrasto con quella dell'industria e del potere, ma questo è la storia a definirlo, oggi, a ritroso. Mentre noi accettiamo e infine quasi tutti condividiamo un assetto che è tutto e solo del consenso (e dello spreco, per quanto riguarda enti locali e molto spesso le iniziative marginali) e del rafforzamento dei poteri esistenti, del potere. Paradossalmente, siamo più uomini di regime noi che i funzionari degli anni Trenta. E parallelamente a un giudizio più chiaro sull'azione di quelli, di quel tipo di intellettuali avvertiamo la mancanza e ne sentiamo la nostalgia. Il panorama del funzionariato editoriale, per non parlare di quello giornalistico e di qualsiasi altro cui è istituzionalmente attribuita la diffusione della cultura, è costernante, e basta aggirarsi per i corridoi di quasi tutte le case editrici per rendersene conto. Chi, oggi, sostituisce Vittorini, e muove, stimola, propone, sostiene e ha un piano altro? cui sta lavorando Aldo Mastropa-squa, dal 1926 al 1933. Ilibri, la città, rimondo, copre un decennio che si dimostra come un fondamentale arco di tempo durante il quale si precisano e si radicano le scelte culturali di Vittorini. Un periodo in cui, mentre si sviluppano e mutano le concezioni politiche e ideologiche dello scrittore, contemporaneamente si manifesta e prende forza l'immagine più propria di Vittorini, quella in cui narratore e operatore culturale sono inscindibili, per cui non esistono confini nè separazioni tra impegno critico, sociopolitico, creativo. Questo insieme, assolutamente vittoriniano, di tensione verso il mutamento e di estrema e Bompiani, destinato a trasformarsi in un incarico editoriale e si trasferisce a Milano, dove il lavoro si fa intenso, frenetico. Legge e traduce letteratura americana, mantiene i rapporti con i collaboratori, dirige due collane, "Corona" e "Pantheon". Le lettere vanno progressivamente perdendo i riferimenti alla vita personale, ai risvolti privati, si sguarniscono di dichiarazioni di bisogni, di desideri di vita libera, di ragazze, di scoperte. I suoi interessi si concentrano sugli impegni di lavoro, sui problemi quotidiani, sulla maturazione del mestiere. Precisissima è la consapevolezza che l'editoria è un'industria e che in quanto tale rappresenta un'avventura in cui è la possibilità fare il pieno di vita, di ritrovare la saldatura tra vita e scrittura che lo aiuti ad adeguarsi alla nuova realtà sociopolitica. La fine di questa raccolta di lettere prelude così all'inizio del "Politecnico", all'elaborazione di un nuovo progetto che gli permetterà, secondo il consueto stile, di fare tabula rasa, di ricominciare da capo con un totale travaso di forze e di energie. Di una nuova esperienza, cioè, di ricerca di unità tra lo scrittore e il produttore di cultura, tra l'inventore di idee e linguaggi e il creatore delle condizioni materiali per la loro affermazione e divulgazione. □ L'America lontana e vicina dì Mirella Serri Elio vittorini, Americana, Bompiani, Milano 1985, 2 voli., (I ed. 1941) con note critiche di Claudio Gorlier e Giuseppe Zaccaria, in appendice l'introduzione all'edizione del 1941 di Emilio Cecchi, pp. 1.056, Lit. 40.000. Americana, l'antologia di narrativa curata da Elio Vittorini nel 1941 e che era stata privata del corredo di introduzione e di note dalla censura di regime, immediatamente si propone alla rilettura con il valore e la carica di un mito. Un mito di forza quasi pari a quello contenuto nella simbolica immagine dell'America che la raccolta offre e che, insieme alle traduzioni di Vittorini e di Pavese della fine degli anni '30, aveva contribuito a fondare. Un 'America costruita tutta di testa e d'invenzione, animata dai 'furori" vittori-niani, dalla visione di una civiltà che nasce contrassegnata da innocenza e da primitivismo, di una terra aurorale, sacra, lontana ma anche vicina e presente per l'alternativa che sotterraneamente veniva a rappresentare nei confronti dell'Italia fascista. L'antologia, divisa nelle sezioni che vanno dalle origini (Washington Irving) ai classici (Poe, Hawthorne, Melville), al "rivolgimento delle forme" (Willa Carter, Gertrude Stein, Sherwood Anderson) si presenta come la proposta di una cosmologia, la rappresentazione di un mondo, la metafora di un universo. Ogni affermazione dell'introduzione di Vittorini — poi sostituita dalla più cauta prefazione di Emilio Cecchi — sui connotati di questa narrativa, da cui trapelano l'impulso e l'energia capitalista, la più vera dimensione agricola e contadina, i grandi spazi, le grandi folle, la tecnica e il progresso, risuona come un tiro ben mirato contro l'ideologia di regime. Il risultato finale sarà quello di erigere come uno specchio di fronte a cui non potrà non ritrarsi l'Italia in guerra, gravata, per contrasto, dalla apparizione delle sue fatiche e dei suoi mali. Ma proprio in questo specchio, in questa contrapposizione di mondi è la suggestione più intensa e che più risalta dalla raccolta. La proposta letteraria di Vittorini presuppone infatti qualcosa che è profondamente mutato a causa della pluralità dell'informazione: la presenza di un solido, consistente legame dell'opera con il lettore, con il pubblico. La letteratura come unico mezzo attraverso cui far passare ogni tipo di messaggio, estetico, politico, umano. L'intuizione di Vittorini è che in questo rapporto sta la garanzia del successo e che Americana sarà un libro che si rivolge non solo a una generazione di intellettuali, ma anche al più vasto pubblico (sintomatico il carteggio con Bompiani in cui Vittorini propone la traduzione di romanzi non bellissimi ma di diffusione e la risposta dell' editore a favore invece della qualità). L'ambizione sarà appagata dalle vendite e la visione di questa congiunzione testo-pubblico, osservata a posteriori, si riempie di fascino e di nostalgia e acquista i caratteri del mito non solo per l'affermazione da parte di Americana di una identità culturale diversa da quella dominante, ma anche perla testimonianza di una funzione assoluta della letteratura che oggi non esiste più. Lettere in mutamento di Mirella Serri Elio Vittorini, 1 libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943, Einaudi, Torino 1985, pp. 281, Lit. 28.000. Lentamente il carteggio vittoriniano va facendo la sua apparizione, completando i periodi di tempo ancora rimasti scoperti. Inaugurato nel 1977 da Gli anni del Politecnico. Lettere 1945-1951, era previsto che le lettere dal 1^26 al 1945 fossero riunite in un'unica edizione. Ma, la grande quantità del materiale, ha imposto uno sdoppiamento e la raccolta appena uscita, 1 libri, le città, il mondo, ottimamente curata da Carlo Minoia, comprende gli anni dal 1933 al 1943 e seguirà il volume a radicale sintesi di vari ambiti di interessi, si definisce in questi anni. È nel 1933, data presa come momento di partenza per la raccolta che, come testimonia la lettera di apertura a Malaparte, Vittorini, nonostante il grande ossequio e l'ammirazione per lo scrittore, abbandona le suggestioni del periodo precedente, gli ideali stilistici ispirati alla "Ronda", al "Selvaggio", a "Strapaese". L'attenzione di Vittorini è volta ad altre direzioni, all'ambiente fiorentino, alla collaborazione con "Solaria", alla frequentazione dei gruppi letterari. La vicenda della guerra di Spagna segna, poi, il definitivo rifiuto del giovanile fascismo 'di sinistra'; un cambiamento che si configura non solo come scoperta politica ma come esperienza che immediatamente confluisce nella produzione della scrittura, nella dimensione del narratore. Proprio in questi anni un altro elemento estende e amplia l'attività di Vittorini: l'incontro con l'editoria. Inizia un rapporto di consulenza con Valentino del fallimento, dell'errore. I compiti, che si accavallano e si moltiplicano, vanno dalla scoperta e dal reperimento dei testi, dal superamento degli ostacoli della censura, alle più svariate necessità: di spronare i collaboratori pigri (come Gadda o Savi-nio), di accaparrarsi le firme (da Fal-qui, a Bo, a Montale), di provvedere alle cose spicciole e di ordinaria amministrazione (in sostituzione della segretaria, Vittorini consiglia a Bompiani un giovane "serio, colto e che sa anche scrivere" : Vasco Pratolini). La svolta del '43 impone una brusca sospensione a tutto questo: dopo l'arresto del luglio e il rifugio nella clandestinità Vittorini avverte come improrogabile esigenza una soluzione che lo stacchi decisamente dal passato. Le lèttere a Valentino Bompiani animate da sentimenti contraddittori, sono aggressive e appassionate, chiedono e rifiutano amicizia e il rapporto con l'editore non è più limpido e diretto. Vittorini, identificato completamente con l'attività politica, sente il bisogno di ri- Vittorini e il Concordato di Aldo Mastropasqua Elio Vittorini, Il brigantino del papa, Rizzoli, Milano 1985, pp. 136, Lit. 12.000. Più che mai appropriata è la metafora dell'archeologia subacquea per il Brigantino del papa di Elio Vittorini che Sergio Pautasso ha coraggiosamente riportato alla luce, sottraendolo insieme alle profondità dell'oblio e alla opacità di una incipiente leggenda di romanzo maledetto. Il Brigantino del papa è anch'esso una metafora o, più propriamente, un'allegoria delle ambizioni letterarie del giovanissimo Vittorini. Scritto tra il 1927 e il 1928 nella fredda e periferica Gorizia, con esso Io scrittore siciliano sperava di evadere dall'anonimato letterario e di risolvere le proprie angustie economiche. II varo del Brigantino, come si rileva dalle lettere di Vittorini a Enrico Falqui — all'epoca segretario di redazione della "Fiera letteraria" — doveva essere patrocinato da Curzio Malaparte, in quegli anni eminenza grigia di molte, non sempre felici, iniziative letterarie. Il Brigantino del papa, "racconto marino" come informa in un sottotitolo l'autore, ma in realtà romanzo breve più che racconto lungo, tenta di conciliare elementi tra loro assai diversi quali la ricercatezza di una scrittura "all'antica" di sapore ron-desco, un intreccio oscillante tra l'avventuroso e il grottesco e quel gusto provocatorio e dissacrante che era tipico delle opere di Malaparte. Il Brigantino racconta la vicenda di papa Pompilione, che, cacciato dal popolo romano per le sue velleità ri-formatrici e moralizzanti (la storia è collocata nel primo ottocento), viene catturato dal San Martino, brigantino dei passatori del Tirreno comandato da Sebastiano Fregoso, uomo all'antica ma propenso alle divagazioni metafisiche, e manovrato da una ciurma feroce ma cattolica e superstiziosa, proveniente da tutte le regioni italiane. Riconosciuto dopo molti equivoci, papa Pompilione viene trattenuto a bordo come protettore e cappellano. Fregoso vorrebbe raggiungere la Francia per far bottino e "mettervi corna", ma i venti contrari sospingono invece il brigantino in Spagna dove la nave raccoglie una bella gitana, Annunziateli, che rallegra la vita dell'equipaggio. Ostacolata da tempeste e bonacce, la nave resta lontana dalle coste francesi. Intanto Pompilione, intristito e nostalgico, si dà a farneticazioni e a pratiche stregonesche, assecondato dal Fregoso. In prossimità del Natale, Annunziatel-la sobilla l'equipaggio, sostenendo che le difficoltà di navigazione sono dovute alle attività del papa e per di più rivela il suo progetto di privare i marinai della loro virilità, per farne dei cantori di cappella nei riti natalizi. Inferocito, il gigantesco nostromo Trepicche sodomizza Pompilione che per l'onta, dopo rapida agonia, muore. Rotto l'incantesimo, il brigantino intraprende una prospera navigazione, commerciando con le reliquie del papa. Il Brigantino, al di là del suo valore documentario di opera prima, testimonia la precoce abilità del giovanissimo scrittore che manovra assai abilmente una scrittura manierata che tocca, a tratti, punte di autentico virtuosismo. E evidente che il rapido processo di maturazione letteraria e ideologica di Vittorini ha segnato in breve la rimozione e quindi l'oblìo di questo primo romanzo, come suggerisce anche un'interessante appendice, aggiunta da Pautasso. Resta da chiarire il perché della mancata pubblicazione del breve romanzo, certamente non inferiore, sul piano letterario, a tanta produzione "arcitaliana" degli ultimi anni venti. Ebbene, forse Malaparte, pur nel suo inguaribile "donchisciottismo" politico, non poteva non rendersi conto che un romanzo del genere sarebbe andato ad incappare nelle maglie della censura, non solo per la grande libertà linguistica ispirata a Berni o all'Aretino e per la scabrosità dello scioglimento dell'intreccio, ma soprattutto per l'irriverente verve satirica anticlericale, particolarmente inopportuna alla viglia degli accordi tra stato fascista e Vaticano. Il Brigantino, in definitiva, sotto il velo dell'allegoria, sembra esprimere il timore, nutrito da tanti "selvaggi" come il giovane Vittorini e il suo mentore Malaparte, che la prima conseguenza dell'incombente Concordato sarebbe consistita nella svirilizzazione e nel depotenziamento della "rivoluzione fascista".