In un certo senso, i cambiamenti e le tensioni in atto documentano il fallimento di un paradigma -economicista, meccanicista - che un tempo era il paradigma scientifico dominante e che oggi continua ad esercitare la sua pesante influenza sulla mentalità comune, sulla cultura dominante in molte imprese, istituzioni, organizzazioni. Nel paradigma economicista il lavoro è interamente definito per il suo aspetto "oggettivo": il lavoro come "forza-lavoro", come "fattore di produzione". Si tratta di un paradigma del tutto irrealistico, specialmente oggi: non ci permette di comprendere e tanto meno di indirizzare il cambiamento. Nel linguaggio quotidiano, anche in quello di chi "mastica" i concetti economici, il lavoro è catalogato come "fattore di produzione", cioè come bene economico sui generis che si può comprare e vendere (tant'è che si parla normalmente di "mercato del lavoro") e che serve a produrre altri beni: la dimensione oggettiva del lavoro, più che prevalente, diventa l'unica rilevante. Non c'è da sorprendersi di questa riduzione: la scienza economica, nei suoi filoni più popolari, si è appiattita sull'indagine, raffinata quanto si vuole ma radicalmente meccanicistica, di sistemi chiusi, nei quali diversi soggetti (consumatori, lavoratori, produttori) giocano una partita complessa ma ultimamente prevedibile; sistemi chiusi dove spazio, tempo e incertezza - che sono il pane quotidiano dell'esperienza economica elementare - non riescono ad entrare se non come astrazioni; sistemi predefiniti che funzionerebbero perfettamente anche senza uomini, complesse macchine sociali di cui gli uomini sono ingranaggi. Da questa radice meccanicistica derivano tante implicazioni: sia di carattere analitico - interpretativo, sia di politiche del lavoro "micro", sia di politiche dell'occupazione "macro". Se occorre una prova di quanto l'approccio meccanicista sia veramente peivasivo, basta guardare al dibattito sulle politiche del lavoro e dell'occupazione: per quanto il dibattito sia acceso, la linea "liberista" e la linea di derivazione "socialista -marxiana" sono assolutamente omogenee. Esse si contendono lo spazio su uno stesso terreno di gioco, tra meno regole e più tutela: chi reclama deregolamentazione e flessibilità nel mercato del lavoro si scontra con chi domanda maggiori regole per garantire maggiore tutela. Ma questo dibattito non fa che riproporre l'alternativa, falsa e frusta, fra "stato" e "mercato" concepiti come sistemi meccanici antagonisti che si contendono il controllo su un presunto dato: le transazioni economiche. È proprio questo presunto "dato", è proprio la definizione del terreno di gioco che non quadra, e i fatti lo dimostrano. C'è una prima documentazione di carattere empirico della inadeguatezza del paradigma oggettivo e meccanicista a comprendere cosa sia il lavoro e come affrontare la questione sociale: oggi il lavoro, nella sua forma più diffusa nei paesi avanzati, è sempre meno descrivibile come l'applicazione di energia a un compito previsto e prescritto dai processi tecnologici, dove le persone risultano sostanzialmente intercambiabili. Empiricamente, si osserva che i rapporti di lavoro sono regolati da forme contrattuali diverse da quelle che il passato ci ha tramandato (il contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, regolato da orari fissi, cartellini da timbrare, mansionari e gestione burocratica). Il lavoro, dal punto di vista fenomenologico, si configura sempre più frequentemente come presenza personale chiamata a rispondere all'imprevisto, a leggere nuovi bisogni o ad individuare nuove risposte a bisogni antichi. Dunque, il lavoro è essenzialmente relazione fiduciaria, patto, alleanza; in termini più rigorosi, nella analisi economica più accorta, si parla del lavoro come relazione personalizzata e potenzialmente duratura. Una seconda documentazione illuminante emerge se registriamo e poi guardiamo in controluce le