N. 10 I.CJ Esistono le cose tedesche da sempre? I rischi della segregazione nazionale Chi dialoga internazionalmente è leggibile di Enrico De Angelis La letteratura nazionale non esiste Premessa tanto ovvia quanto ineludibile: tutti noi interveniamo nel dibattito come lettori, non come autori né come agenti letterari. Perciò la terminologia che usiamo è da intendersi riferita al nostro punto di vista di lettori. Se parliamo di "unificazione" delle letterature e delle culture, ciò significa che noi lettori troviamo che i libri so- no tutti uguali o quasi, indipendentemente dalla nazionalità di provenienza. Se parliamo di "dena- zionalizzazione della letteratura", ciò significa che quanto leggiamo non mostra con evidenza le ca- ratteristiche che si sogliono riconoscere tipiche del suo paese d'origine (da parte di chi e con quanta fondatezza, è tutto da vedere). Insomma: possiamo parlare delle nostre reazioni di lettori, non certo prescrivere agli autori che cosa e come debbano scrivere. Un'illusione occidentale E noi, soggetto esperiente, non possiamo fare a meno di essere noi, con le nostre letture condiziona- te, perciò parziali e ten- denziose. Tutti i buoni propositi di fagocitare l'al- tro senza appiattirlo, di- mostrandogli rispetto e via dicendo, alla fine scom- paiono, perché se l'espe- rienza non diventa nostra, a che ci serve? L'esperien- za cambierà noi, forse, ma, se sarà stato così, anche noi avremo cambiato il da- to di fatto esperito. Abbiamo letto autori che hanno provato a misu- rarsi con l'altro. Goethe trasse spunto da Hafis, Debussy usò delle scale esotiche, Picasso trasse profitto dalla scultura del- l'Africa nera; ma i risultati si chiamano Goethe, De- bussy e Picasso, non Afri- ca nera o altro. Il rispetto nei confronti della diffe- renza la integra e la fa ces- sare di essere differenza. Rispetto, negoziazione, niente scontro, come scri- vono Benvenuti e Cesera- ni echeggiando Said e Spivak. Si negozia quan- do nessuno dei contendenti crede di poter vince- re o che gli convenga vincere fino in fondo. Uno dei contendenti siamo noi, pare. Chi è l'altro? Vuole negoziare? Sulla base di che cosa? L'altro non è certamente né Said né Spivak, entrambi ben dentro "un'arena condivisa e difesa da tutti i partecipanti", secondo uno sperimentato uso il- luministico: ci facciamo guardare dall'altro (o presunto tale), per farci criticare e dunque pro- muovere noi stessi. Tutti abbiamo in mente Mon- tesquieu e le sue Lettere persiane, per non risali- re più in là. Ma indubbiamente il ruolo risulta di gran lunga più convincente da quando lo rico- prono non persiani finti, in giro per Parigi, ma orientali autentici, intellettuali provenienti da paesi decolonizzati e attivi in università degli Sta- ti Uniti, al centro dell'imperialismo-capitalismo- neocolionalismo e via dicendo. Dunque chi è l'al- tro, realmente l'altro? Supposto che l'abbiamo identificato (e non mi pare), sappiamo se vuole negoziare? Sulla base di che cosa? A me pare che sia tutta una negoziazione al nostro interno: al- l'interno di lettori e critici che usano stesse cate- gorie di pensiero. Che cosa negozieremo con al- tri lettori? Di Said scrivono Benvenuti e Ceserani: "Il ca- none occidentale (...) è salvato in nome di una complessità che lascia echeggiare, magari ai mar- gini del racconto, le voci degli oppressi". È facile riconoscere la matrice adorniana di questo atteg- giamento; Adorno è un pensatore che Said ha se- guito da vicino, anche in altri campi, come in una notevole raccolta di scritti dedicata allo stile tar- do. Gli autori trattati sono scrittori, ma soprat- tutto musicisti: Beethoven, Mozart, Schònberg, Richard Strauss, Richard Wagner. Tutti, musicisti e scrittori, fanno parte del canone occidentale. E in nessuna parte vengono accusati di orientalismo e imperialismo. Ci sarà pure una ragione, per tut- to questo occidentalismo del lettore, ascoltatore e critico Said. L'essenza "letteratura nazionale" non esiste Nella sua recensione Anna Chiarloni sostiene che "una risposta nazionale" all'unificazione tota- lizzante si radica nella "resistenza della memoria". Vi si fa l'esempio della letteratura tedesca, che conserva "il travaglio del passato hitleriano". Noi non siamo tedeschi; ma non ammetteremo di non M sione. Il convegno, sostenuto anche dal Dipar- timento di Studi umanistici, si terrà il 23 e 24 ottobre 2012 nell'aula magna dell'Università di Torino. E se le ragioni della prima appaiono ov- vie e persino doverose in determinate stagioni, le ragioni della seconda possono essere qui som- mariamente accennate. Il fenomeno da esaminare non sembra limitato alla contemporaneità: il medioevo offre innume- revoli esempi di quella che Alberto Varvaro chiama "tridimensionali- tà" della letteratura: testi in volgare che attingono dal basso - la cultura orale - e dall'alto - i mo- delli formali e contenuti- stici della cultura latina - e che si influenzano a vi- cenda, attraverso confini piuttosto fluidi. La for- mazione di forti aggrega- zioni statali che si ha in Europa dalla fine del Quattrocento in poi, e la necessità dei nuovi stati di dotarsi di un capitale simbolico-identitario che ricomprenda l'intero dominio culturale tendono certamente a irrigidire il processo di assimilazione fra lingua, letteratura e nazionalità, non senza resistenze da parte delle culture che vengono via via emarginate. Nella modernità, a grandi Geistesgeschichten si sostitui- scono narrazioni più contenute e specifiche, quelle che in origine il Circolo di Praga e il primo Wellek studiavano come "progressi separati di forme, tecniche, istituzioni", irrelati a una storia generale, e che noi potremmo chiamare modelli euristici dello sviluppo letterario, la cui peculiari tà è di non avere fissa di- mora, nel tempo e so- prattutto nello spazio, e quindi di sottrarsi a qual- siasi connotazione nazio- nale strettamente intesa: pensiamo alla tecnica narrativa della digressio- ne che da Eliodoro si è propagata con infinite variazioni ad Ariosto, - Cervantes, Sterne; al so- netto che da Petrarca si è trasmesso a Surrey, Sha- kespeare, Ronsard, fino a Zanzotto; al Bildungsro- man inaugurato da Goe- the e ripreso da Mann, Gide, Calvino; al raccon- to "ben fatto" di cui sono stati maestri i francesi e poi gli americani. (Ber avviare una discussione pubblichiamo gli in- terventi di Anna Chiarloni ed Enrico De Angelis) obbligato a spiegarmi la morale della favola, dif- fidando delle mie capacità di capirla. Ma non vorremo immiserire quelle letterature riducendo- le a questo. Perciò chiediamoci più seriamente se, per esempio, sia identificabile una germanicità della letteratura tedesca. Io non so trovarla, o al- meno non so trovarla più. Ci hanno provato gran- di personaggi. Thomas Mann ritenne di trovare la germanicità della letteratura tedesca nel concetto di "Mitte", con cui intendeva contemporanea- mente centralità, mediazione, comunicazione fra culture. In un grandioso capitolo di un'opera pe- raltro molto dubbia come Doctor Faustus, intro- dusse l'ebreo franco-polacco - e impresario, cioè mediatore culturale - Fitelberg, a rimproverare ai tedeschi di aver perso la loro medietas, di cui dà la seguente specifica: applicazione spietata di re- gole inesorabili, spigolosità, pesantezza ritmica, staticità, grossolanità, ruvidezza, ineleganza, "tut- te cose tedesche da sempre". Quella medietas - per di più intesa in quel modo - definisce a suffi- cienza i classici della let- teratura tedesca? E la medietas che cerchiamo in loro? No! (E spero ab- bia torto il buontempone Nicholas Boyle, germani- sta inglese per il quale la letteratura tedesca è cosa di funzionari statali pro- testanti; se avesse ragio- ne, avrei sbagliato me- stiere). "I confini (scrivono Benvenuti e Ceserani), lungi dall'essere divenuti una questione marginale, tornano oggi a porsi quale nodo centrale e ineludibi- le della nostra esperienza politica, sociale e cultura- le". D'accordo; ma mi trovo perso quando leggo che "occorre interrogarsi sulle modalità di costru- zione di immaginari inter- connessi e di un immagi- nario della globalizzazio- ne", perché come lettore non mi sento chiamato a costruirli. Questo è com- pito altrui. Invece sono costretto a capire quella letteratura e quella tematica. Non siamo disposti a seguire l'esclusivismo di Richard Wagner, secondo il quale solo i tedeschi possono capire i classici tedeschi. Gli intellettuali tedeschi non hanno "l'investitura esclusiva della testimo- nianza". Allora di che cosa si tratta? Di un prima- to quantitativo? Del fatto che i tedeschi scrivono sul nazismo più di altri? Se un'identità nazionale passa per le statistiche, occorrerà dirlo. Se non passa attraverso le statistiche, allora bisognerà cer- care altrove. Se leggo quelle opere, non è per l'in- teresse primario di scoprire l'identità nazionale al- trui. E non vedo perdita del soggetto. Stiamo at- tenti a non restringere il campo dell'esperienza: non diremo che solo chi ha avuto una determinata esperienza può capire chi ne scrive; perciò solo le donne potrebbero capire le scrittrici e via di que- sto passo, fino a concludere che può capire me so- lo chi ha avuto le mie stesse, identiche esperienze, dunque in ultima analisi posso capirmi io solo. L'approdo sarebbe Yindividuum ineffabile. E tutto questo sarebbe segregazione, non Weltliteratur. Eppure succede di esclamare, in un momento di malumore, che, poniamo, un romanzo è pro- prio americano o proprio tedesco! A me succede quando nel tedesco trovo che, fiducioso nei saggi ammonimenti e sicuro di dovermeli impartire, vuole rendermi migliore, e l'americano si sente interrogarmi su come orientarmi nel mare della produzione contemporanea. Io non la trovo carat- terizzata da impronte nazionali. Non per le temati- che (a meno di non ricorrere a statistiche), meno che mai per le forme, tutte universalmente diffuse. La risposta che mi do è la seguente: cerco di orien- tarmi proiettando quel che leggo su una dimensio- ne internazionale; superando ciò che appare legarla esclusivamente al suo paese - dunque sciogbendola da una sua costrittiva determinatezza - per trovare ciò che la pone in dialogo con altri paesi. "Ciò" so- no le forme, i modelli, è la ricerca stessa del dialogo, è la variazione apportata al veicolo del discorso. Chi dialoga internazionalmente è leggibile. Chi non lo fa, non lo è. Si perde così qualcosa di grande? In teoria è possibile, in pratica no: quel che resta mo- mentaneamente oscuro, diventerà intelligibile quando entrerà in dialogo, dunque quando avrà una lingua comune. Questa è una proposta interlocutoria, niente di più. Ma siccome interlocutoria è tutta la realtà, non ho modo di dispiacermene. Voglio nomina- re il mio ascendente, pur prendendomi la re- sponsabilità di quel che ho scritto: è Friedrich Schleiermacher; proprio lui, non una delle sue tante derivazioni. g e.deangelisgling.unipi.it E. De Angelis ha insegnato letteratura tedesca all'Università di Pisa