I felini domestici nella letteratura Gatti neri e bianchi, demoni o angeli della casa? di Carlo Lauro La sovrapproduzione babelica di libri sui gatti (da sempre l'animale più "cartaceo": testi letterari, etologici, esoterici, iconografici, fotografici, fumettistici, antologici) talvolta riserva qualche buona sorpresa. Se omaggi estemporanei al gatto non sono mai mancati (Leonardo: "è il capolavoro della natura"; Victor Hugo: "è una correzione del creato"), è a partire dal memorabile Le Chats di Paradis de Moncrif (1727) che si tenta un primo compendio ragionato della sua influenza nella storia culturale umana. Naturalmente, a un secolo di distanza, i saggi gattofili moltiplicano esponenzialmente i dati: basta rileggere i due Les Chats (il titolo si ripete) dell'ingiustamente dimenticato Jean Gay (1865) e soprattutto di Champfleury (1869) per capire che il felino domestico, a partire dal Romanticismo, si è andato fieramente ricavando un primato, non più espugnabile, nel mondo delle arti e del pensiero (con buona pace d'altri noti quadrupedi). Altre e più estese certe esegesi sono sorte nel Novecento: ecco appunto pubblicati adesso un classico americano del 1920 (Cari van Vechten, Una tigre in casa, trad. dall'inglese di Marco Si-monelli, pp. 380, € 17,50, Elliot, Roma 2010) e un ben più recente contributo francese che si raccomanda anche per la magnificenza iconografica (Michèle Sacquin, Gatti di hihlioteca, ed. orig. 1995, trad. dal francese di Paola Gallerani, prefaz. di Pierre Ronsenberg, pp. 208, € 25, Officina Libraria, Milano 2010). Se a questi si aggiunge il dottissimo Impronte di gatto di Detlef Bluhm uscito nel 2007, si può dire che la saggistica gattofila "impegnata" non soffre ribassi. Si avverte, anzi, in alcuni di questi testi una lucife-rina pretesa di esaustività, di non tralasciare alcun dato pregnante, alcun aneddoto sul gatto: periclitante utopia che l'inesauribile, millenario soggetto non consente a nessuno. Così, persino alla catalogazione musicologica dal Rinascimento ai nostri giorni - approntata da Bluhm - con decine di composizioni feline (Scarlatti, Rossini, Offenbach, Stravinskij, Ravel, Schoenberg, Satie e decine d'altri fra cui Adorno) può irreparabilmente sfuggire che il penultimo opus di Mozart, a ridosso dell'incompiuto Requiem, è un miagolato duetto coniugale, candido e inquietante ("Nun, liebes Weibchen ziehst mit mir" KV 625), su testo di Schikaneder. Con legittimo orgoglio i saggisti rammentano le antiche civiltà che adorarono il gatto e alcuni stralci di lussuosa considerazione in evi successivi: Maometto che recide la manica della veste per alzarsi senza svegliare la gatta ivi dormiente, Ri-chelieu circondato da legioni di gatti, Nelson che balza sul vascello in procinto di affondare per prelevarvi il felino dimenticato. Ma le trattazioni affrontano anche gli abissi morali delle persecuzioni nell'Europa dalle vantate "radici cristiane". Quella di Van Vechten - sempre in bilico tra passione e autoironia - ci ricorda che il gatto è l'unico oggetto sul quale non si può restare neutrali; che, appunto, uno dei rovesci di tante predilezioni è un'oscura e non rara patologia, la ailurofobia, misto di paura e ribrezzo invincibili per il nobile animale. Ne soffriva acutamente, sino al panico, Napoleone (chissà che la flotta di Nelson a Trafalgar non pullulasse di gatti). Altro ailurofobico (proprio all'opposto dei contemporanei Montaigne e Joacquim du Bel-lay) fu il grande Ronsard, lo confermano quattro acidi versi: "In nessun luogo un uomo c'è / Che odi i gatti più di me; / Detesto gli occhi e la testa e quello sguardo, / E quando uno ne vedo me ne parto". Tre secoli dopo, certo senza riferimenti alla quartina, Testatico controparere di Théophile Gautier ("Chi potrebbe credere che dietro quegli occhi luminosi non ci sia un'anima"?) incarna perfettamente la crescente scoperta di una complessità. Le "chat botté", l'aurea invenzione di Perrault, è difatti trasmigrato nel primo Ottocento in una se- rie di straordinari continuatori ("chatte anglaise" di Balzac, Katz Murr di Hoffmann, gatto nero di Poe); nucleo forte da cui sortiranno via via successori sempre più astuti e ambigui (il gatto finto cieco di Collodi, il Behemot sulfureo di Bulgakov, la bianca infernale creatura di Sheridan Le Fanu, ecc.). Ma l'Ottocento è anche il secolo in cui vispe complicità domestiche con il felino generano impagabili memorie d'autore (titoli quali Ménagérie intime o Histoire des mes hètes), in cui anche i momenti più tragici non perdono la compostezza suprema dello scrivere: si pensi ai sobri biglietti di partecipazione luttuosa che Hoffmann, affranto, scrisse per gli amici alla morte del mitico Murr o alle considerazioni di Gautier e Loti al momento delle rispettive dipartite di Pierrot e Moumoutte Bianche ("Mi sembrava" scrive Loti "che la sua morte fosse l'inizio della fine per gli abitanti della Seboo Migone, Val d'Orda - Autunno nostra casa... Era come se avessimo messo sottoterra dieci anni della nostra esistenza"). SeT icona poetica par excellence resta Baudelaire con i suoi tre sonetti, tutto il secolo, soprattutto in Francia (basta una frasetta di Chateaubriand, un ricordo di Dumas pére o Huysmans effigiato con il gatto nero sulle spalle), trasuda intenerite ammirazioni. Dovizioso di spunti del genere è il libro di Michèle Sacquin che, conservatrice della Bibliothè-que Nationale, propone magnifiche immagini (dalle più antiche miniature a Dorè, Manet, Vallotton, sino allo specialista ineguagliato: Steinlen), tutte provenienti da quelle monumentali riserve. Non ultimi, i gatti del XX secolo, più invasivi delle cavallette, riceveranno omaggi da legioni di poeti (in testa Eliot con il suo Oldpossum's hook of practical cats), delegazioni di scrittrici (le più diverse: Colette e Rachilde, Doris Lessing ed Elsa Morante), sensibilissimi maudits (Lovecraft, Céli-ne, Burroughs); si annidano in scritti e dipinti di Paul Klee, nelle osservazioni di Wittgenstein, negli schizzi di Valéry e Cocteau, nei diari di Léautaud. A osare una piccola ma consistente antologia letteraria otto-novecentesca (con decine di rarità tra cui Scribe, Maupassant, Kipling, Tennessee Williams), sopravvive in Italia, da vent'anni, l'agile ed elegante collana "Felinamente". L'ultima fatica della sua assidua curatrice, Marina Alberghini, è ora il saggio, erudito e scorrevole, All'ombra del gatto nero (pp. 216, € 17, Mursia, Milano 2011). Se riguardo al gatto in generale non si può, come asseriva van Vechten, non prendere posizione, nei confronti del nero la storia conferma contrapposizioni se possibile ancora più nette, senza quartiere: da un lato, secoli di illimitata follia, fanatismo e crudeltà contro un presunto simbolo del demonio (ancora la chiesa e le sue superstizioni; i ben piazzati strali illuministici di Alberghini non si contano). Dall'altro, il culto di tanti connaisseurs di gatti che collocano l'esemplare nero, collettore massimo di simbologie, al vertice della piramide della specie intera; illuminanti anche stavolta i riferimenti alla stagione romantica e simbolista francese e la creazione del ritrovo parigino "Lo Chat Noir", in cui per decenni s'incontrarono i più bei nomi. Come poi non citare una miscellanea, un tempo forse impensabile, come II gatto e la filosofia, a cura di Steven D. Hales (ed. orig. 2008, trad. dall'inglese di Filippo Verzotto, prefaz. di Giorgio Celli, pp. 288, € 18, Angelo Colla, Costabissa-ra 2011). L'osservazione quotidiana dei propri maieutici beniamini spinge alcuni docenti di filosofia di varie università a dissertazioni di mistica, estetica, etica, metafisica felina (con citazioni e riferimenti da Socrate a Merleau-Ponty). Chissà, si legge a un certo punto, se Nietzsche scrivendo la Genealogia della morale non pensasse ai gatti nell'elaborare "l'idea di una forma di vita umana che stesse al di sopra e separata rispetto alla norma 'troppo umana'"? Singolari interrogativi di una silloge che non manca di alcuni paragrafi intriganti. Infine, è giusto toccare il punto infimo del nostro excursus, quello di Trevor Greive Brad-ley Perché i cani sono meglio dei gatti (ed. orig. 2009, trad. dall'inglese di Maria Gabriella Podestà, pp. 224, € 20, Mondadori, Milano 2010). L'autore è famoso per una serie di bestseller (diversi i titoli con il termine "coccole", c'è anche un più patetico Coccoliamoci) che portano la letteratura animalista verso la deriva commerciale dolciastra e antropomorfa oggi di moda (antropomorfe sono anche le brutte foto, da calendario, del libro, con cani e gatti occhialuti o con berretti). Con ammiccante sfrontatezza, Greive Bradley contrappone continuamente il felino arido, inutile e opportunista al cane che ti lecca la mano; con divertita insolenza suddivide i cultori del felino in categorie mentecatte. Ora, il cane è un rispettabile animale, vanta pure lui buone nicchie letterarie (i cani leggendari di Jack London; quelli di Thomas Mann e di Virginia Woolf); ma giusto il torto più gratuito che gli si possa fare è perpetuare l'annoso confronto con i gatti (risalente già al cinofilo Bouffon), soprattutto dopo l'irresistibile ascesa di quest'ultimi e senza le armi di una solida dialettica. Nel Novecento Lovecraft e Burroughs, con parole affilate come rasoi, avevano rintuzzato utilitarismi, passività e sordidezze canine, cari all'uomo delle coccole, ed esaltato una volta per sempre dignità, anarchismo, fierezza del felino. Intransigenze di grandi outsider della letteratura, non lepidezze kitsch confezionate per astute tirature. Forse i gatti di biblioteca stanno cedendo ai gatti del mercato. Trovarlo, oggi, un libro come il Particulary Cats (1967) di Doris Lessing, osservatorio di straordinaria sagacia. Nella pletora editoriale di cui si diceva all'inizio, il settore paralette-rario è quanto di più lontano dal rendere degnamente l'alterità e le mille ambivalenze dell'animale colte dai secoli precedenti. Descrivere senza sbavature la sua assolutezza è dei pochi felici. E tanto più la letteratura dovesse decadere, tanto più suonerebbe vera la massima di Mark Twain: "Se fosse possibile incrociare l'uomo con il gatto, la cosa migliorerebbe l'uomo, ma di certo peggiorerebbe il gatto". ■ claur@libero.it C. Lauro è dottore di ricerca in letterature comparate all'Università di Bari