w o L'INDICE . ■■IDEI LIBRI DEL MESE ■■ u « I • IO e £ tuo t/} verità nuda e cruda. In ogni caso trattasi del ri- chiamo a una maledetta realtà storica, indispen- sabile per comprendere una delle dimensioni fondamentali di quanto avvenne negli anni suc- cessivi e con la stessa svolta della Bolognina. Ac- canto ad altri episodi che richiamano fatti anco- ra più significativi per la luce che gettano sulla peculiarità di quanto in Italia si dissolse dopo la caduta del Muro, come fa intendere la conclu- sione stessa della conversazione di Lajolo con Togliatti: "Ho fatto di tutto per evitare quel cli- ma di sospetto in Italia". Il Pei fu anche un par- tito di libertà, come dimostra la pubblicazione imposta da Luigi Longo del memoriale di Yalta contro i tentativi sovietici di impossessarsene per evitarne la diffusione. Il Partito comunista che condanna l'invasione della Cecoslovacchia a do- dici anni dall'approvazione di quella dell'Unghe- ria. Insomma, il Pci-giraffa, animale assurdo che tuttavia esiste in natura. Per quanto tempo? Ma è su Berlinguer che l'autore, pur nel suo plu- ralismo interpretativo, mostra i suoi veri colori. È la difesa di Berlinguer a suscitare il suo unico lampo d'ira, quando accusa di volgarità Fassino (cfr. Piero Fassino, Per passione, Riz- zoli, 2003; "L'Indice", 2003, n. 10), per averne collegato la morte al pre- sunto esaurimento della sua strategia politica. È con lo strappo effettuato da Berlinguer a Mosca e riportato sulle prime pagi- ne della stampa mondiale, in nome di "Una società che garantisca il rispetto di tutte le libertà indivi- duali e collettive, delle li- bertà religiose e della li- bertà di cultura, dell'arte e delle scienze", che Tele- se apre il suo racconto. È di Berlinguer una delle ci- tazioni più gustose (cfr. Massimo D'Alema, A Mo- sca l'ultima volta, Donzel- li, 2004; "L'Indice", 2004, n. 12): "Vedi, questa è la prima legge del socialismo reale: i dirigenti mentono sempre, anche quando non sarebbe necessario. La seconda: l'agricoltura non funziona, mai, in nes- suno di questi Paesi. La terza, facci caso (...) è che le caramelle hanno sem- pre la carta attaccata". Una rottura con l'Unione Sovietica che, giustamen- te, Telese mette in rappor- to con l'attentato alla vita di Berlinguer, effettuato a Sofia nel 1973, secondo la testimonianza ormai con- solidata e inequivoca di sua moglie e del fratello Giovanni. E soprattutto significativa la rivisitazio- ne dell'intervista a Berlin- guer di Giampaolo Pansa di cui si ricorda soltanto l'apprezzamento per l'ombrello difensivo siva svolta e dello stesso libro di Telese, che, non a caso, dedica le sue pagine più emozionanti a un intermezzo soltanto apparente, l'esperienza cilena di Salvador Allende. In realtà aveva fatto quasi (diamo ad Achille quello che è di Achille) tutto Berlinguer. La svolta successiva è stata possibile soltanto perché Berlinguer aveva rotto con Mosca restando fedele a un'Europa federativa e a una critica .al bipolarismo tuttora attuale. Consolidan- do l'orientamento democratico del Pei, che per ragioni di strumentalità politica continuerà a esse- re disconosciuto, egli si era misurato con le re- sponsabilità istituzionali di un grande partito oc- cidentale, senza cedere un'unghia riguardo alla sua rappresentanza di coloro che successivamente verranno chiamati, e non soltanto da Fassino, sfi- gati. È con la critica postuma a Berlinguer che si spegne l'afflato riformatore della svolta e che ini- zia quello che Pintor prematuramente, con una profezia che i militanti del No hanno contribuito a far adempiere, ha definito la deriva di destra del- la svolta. Disse Luciano Lama, assolutamente im- mune da ogni tentazione di difesa identitaria del passato, ma da buon sindacalista attento al merito delle politiche: "Occhetto è una vittima dei giova- ni dorotei comunisti, quelli che danno poca im- L'ombelico e l'anima di Giuseppe Civati A proposito di Partito democratico, lo si sente ripe- tere spesso, soprattutto dai suoi principali espo- nenti, anche da chi si è candidato a guidarlo: al Pd manca un'anima, una vocazione e un'impronta. Luigi Manconi lo aveva detto tra i primi, con il suo Un'anima per il Pd. La sinistra e le passioni tristi (pp. 152, € 12, Nutrimenti, Roma 2009). Un libro che avrebbe dovuto maggiormente influenzare la campagna congressuale del Partito democratico, che proprio in questi giorni celebra il proprio congresso fondativo. Uno dei con- gressi più "lunghi" di tutti i tempi, dal momento che è stato aperto il 26 giugno e si conclude con le primarie del 25 ottobre e con la successiva convocazione dell'as- semblea nazionale. Un dibattito che ha riguardato mol- to la collocazione degli uni e degli altri: il "dimmi con chi vai e ti dirò che partito sei". All'interno si è dato spazio quasi solo al gioco delle correnti e all'esterno si è parlato quasi esclusivamente della politica delle al- leanze. Il dibattito generale ha lasciato da parte le idee di fondo, proprio quelle che avrebbero dovuto costi- tuire il patrimonio culturale e ideale di un partito nato con le primarie di due anni fa e che, dopo una fase ini- ziale di grande entusiasmo e crescita, conclusasi con la sconfitta elettorale dell'aprile del 2008, ha registrato una progressiva perdita di consenso e una tangibile dif- ficoltà a mantenersi all'altezza delle stesse ambizioni che avevano portato alla sua costituzione. Il congresso purtroppo non ha fatto che confermare questa diffi- coltà e, nonostante i numerosi appelli alla concretezza e nello stesso tempo alla capacità di immaginare il fu- turo, pare l'ultima tappa di quella fase di incertezza piuttosto che la prima di una fase nuova. Il libro di Manconi, pubblicato nella scorsa primave- ra, resta insomma valido e utilissimo al dibattito circa il ripensamento del Pd e della sinistra in generale. Per- ché pone il problema non tanto dell'identità del Pd e della sua provenienza storica, ma quello di sapersi con- frontare con le sfide dell'attualità, rilanciarne anche la cultura politica. Ciò riguarda la questione cattolica - an- cora aperta e sempre più drammatica in questo paese, - e la capacità del Pd di interpretare il paese a cui si è vo- tato. E in gioco, insomma, il presente e, forse, ancora di più, il futuro di uno schieramento, ma soprattutto di un paese che non si sa più raccontare, né pensare per quel- lo che accadrà, ma solo per ciò che è stato. Che è stato travolto dalla crisi senza nemmeno aver riflettuto a suf- ficienza sui motivi che l'hanno scatenata, che non ha chiaro il problema di una democrazia finalmente com- piuta. Che sottovaluta i propri difetti e i propri pregi. Lì, per Manconi, la sinistra deve tornare a parlare, ri- trovando le parole e un approccio insieme tradizionale e inedito, perché di questo si tratta soprattutto. Cercando i temi "divisivi" rispetto alla destra, come li chiama Manconi, nella speranza che un approccio al- ternativo e insieme riformista possa tenere "tutti den- tro il Pd", in un "partito famiglia-allargata" capace di includere e di estendere il consenso e di prendere le di- stanze dal minoritarismo tipico della sinistra italiana. Manconi si dedica alle "cose", alle occasioni che si possono recuperare, partendo proprio dalla sicurezza e dai temi cosiddetti eticamente sensibili (come se gli altri non lo fossero...), senza parlare mai, come scrive in premessa, di Veltroni e D'Alema, Ma- rini e Rutelli (un tentativo pressoché eccezionale, il suo, che ci ricorda come il narcisismo dei leader sia stato un argomento totalizzante, in questi anni). Si parla di identità, e forse di qualcosa di più: si parla di "anima", proprio perché "la grande occasione man- cata" del Pd è stata determinata dall'incapacità "di as- sumere un ruolo di soggetto politico-morale, alterna- tivo a quello della destra", all'insegna di una "debo- lezza di carattere" che ha deluso tantissimi, soprattut- to coloro che avevano creduto fideisticamente nell'af- fermazione di un soggetto politico nuovo. E la novità si vede nella capacità di saperlo interpre- tare, questo "nuovo": e così, per l'osservatore e il letto- re interessati al futuro, la parte che colpisce di più del testo di Manconi è l'appendice, che Manconi dedica al- la società multiculturale, negata non solo dalle parole dell'attuale premier e di numerosi esponenti della com- pagine di governo, ma dalle loro politiche: dedicata pro- prio al "cattivismo al potere" e a quello che il centrosi- nistra (e il Pd soprattutto) potrebbero fare per l'inte- grazione (e non fanno o, se lo fanno, lo fanno pochino). Perché c'è tutto un mondo intorno al proprio ombelico: averlo dimenticato è stato il peccato capitale del Pd. for- nito dalla Nato, mentre è passata nel dimenticatoio la critica a Yalta e alle limitazioni di sovranità in Oc- cidente. Disse Berlinguer in quell'occasione: "Il si- stema occidentale offre meno vincoli. Però stia at- tento. Di là, a Est, forse vorrebbero che noi co- struissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all'Ovest, alcuni non vorrebbero neppure la- sciarci cominciare a farlo, anche nella libertà. Rico- nosco che da parte nostra c'è un certo azzardo nel perseguire una via che non piace né di qua né di là". Da cui l'affinità profonda con Mitterand, Palme e Willy Brandt che aprirà la strada dell'Internaziona- le socialista al Pds a dispetto del "Santo" (Bettino Craxi) che, fino all'ultimo minuto, cercò invano di opporre il suo veto. A ben vedere, è questo il nocciolo della succes- portanza ai contenuti, e che invece pensano sol- tanto al potere". Lama aveva capito tutto perché il potere italiano così com'è (e Berlusconi ne co- stituisce l'estremizzazione in chiave grottesca) non consente riformismi, mai indolori se genuini, modernizzazione, civiltà giuridica e democratica, laicità dello stato, integrazione autentica con quel- la parte della diaspora cattolica che si ispira a que- sti obiettivi e che dorotea non è mai stata. Ed è soltanto attraverso un ritorno al Berlinguer che ha costruito i presupposti della svolta che si può ri- comporre un'unità a sinistra senza la quale non soltanto in Italia ma in Europa si continua a in- dietreggiare, senza riuscire a parlare alla cittadi- nanza nel suo insieme. Anche Obama, per riuscir- vi, ha dovuto riunificare forze politiche e sociali disperse o divise, sconfiggendo la riproposizione del liberalismo clintoniano in un quadro econo- mico e sociale drasticamente mutato. Chi in Italia si compiace per l'arretramento delle socialdemo- crazie non si accorge, o finge di non accorgersi, che, in Francia come in Germania e in Svezia, le forze dell'alternativa continuano a resistere ma so- no spaccate, con il coagularsi di forze elettorali al- trettanto cospicue quanto gli stessi partiti social- democratici (Cohn-Bendit, Linke, verdi e sinistra scandinava). Come hanno compreso Martine Au- bry, Steinmeier e Mona Sahlin, la sfida a coloro che ancora difendono i privilegi della stagione precedente, conclusasi con il crollo di Wall Street, si può soltanto vincere a condizione di ritrovare un'unità di valori e di programmi fondata sulla so- lidarietà sociale. Ciò vale anche per l'Italia. Com'è ovvio, queste considerazioni conclusive sono del recensore più che dell'autore, anche se è la lettura della rivisitazione di quella svolta a sug- gerirle. È altrettanto ovvio che il libro in questione contiene qualche errore e lacuna, anche rilevanti. Un esame più attento del rapporto stabilito dagli eredi della tradizione comunista, non soltanto tra loro ma con il potere costituito, istituzionale ed economico, spiegherebbe molte delle vicissitudini che tuttora ci affliggono. In un libro che vuole parlare al presente, in gran parte riuscendoci, come ho cercato di di- mostrare, manca ogni ri- ferimento all'esperienza di governo e di opposi- zione successiva alla svolta, con l'affossamen- to autoinflitto di ben due governi di centrosinistra guidati da Romano Pro- di. L'autore afferma che: "Solo nella sinistra italia- na un partito può cam- biare per ben quattro volte il nome, conservan- do di fatto - con l'unica esclusione dei deceduti - lo stesso gruppo dirigen- te di vent'anni prima. In tutta l'Europa i leader che perdono, anche quando sono carismatici ed amati come Lionel Jo- spin, vengono rispediti a casa". Forse la risposta all'in- terrogativo implicito in questa doverosa consta- tazione potrebbe essere favorita dalla risposta ad altri interrogativi più specifici, direttamente attinenti all'indagine aperta da Telese. Perché, ad esempio, Vittorio Foa ha sentito il bisogno di porre la questione del si- lenzio dei comunisti? Perché Norberto Bob- bio, a sua volta, si è schierato con altri sim- patizzanti e militanti in- terni (Bruno Trentin) ed esterni nel tentativo di evitare le scissioni a sini- stra (forse se Telese non avesse affrontato la que- stione degli esterni con il solo Paolo Flores d'Ar- cais avrebbe trovato qualche ulteriore elemento di giudizio)? Perché gli editoriali non proprio disin- teressati del "Corriere della Sera" hanno avuto un'influenza così pervasiva su troppi aspiranti do- rotei tra gli ex quarantenni? Perché, infine, l'ovvio approdo socialdemocratico è risultato così tortuo- so e contrastato? Basta la sincerità di Livia Turco: "Non avrei potuto accettare di abbandonare il co- munismo per (...) così poco"? O esisteva forse un problema di laicità, tuttora irrisolto? Insomma, la ricerca continua. ■ g.gmigone?libero.it G.G. Migone è stato presidente della Commissione.Esteri del Senato dal 1994 al 2001