Nuovo Melibeo di Graziella Spampinato OTTOBRE 1996 La morte bambina di Domenico Scarpa VlVIAN LAMARQUE, Una quieta polvere, Mondadori, Milano 19%, pp. 142, Lit 28.000. Quando Vivian Lamarque comincia a scrivere poesie è come un bambino che costruisce una casetta con il Lego. La bambina Vivian ha dietro di sé una vicenda di doppi padri, madri e fratelli, di precoci disamori, di abbandoni e trasferimenti forzati (da Tesero a Milano, da una mamma all'altra), di poveri e strazianti amori sostitutivi. A ventisei anni, nel 1972, scrivere le prime poesie-Lego sull'incontro con la madre e i fratelli consanguinei è un modo di costruirsi il mondo mattone su mattone come un giocattolo solido e colorato, con la stessa fantasia e la stessa pazienza di un bambino. E la sua prima autoanalisi. Così potrà leggere che cosa le è capitato e mettere ordine nella memoria ferita. La memoria di Vivian ci porta con pochi tratti di penna in un'Italia di cinquant'anni fa, un'Italia grigio chiaro che ogni tanto si acquerella di colore. È un'Italia certamente povera, e probabilmente non bella, ma triste: un'Italia di Ina-case e squarci di cielo azzurro, di mobili di fortuna, di Polesine e colonie estive, di ballatoi e pareti intonacate a calce. Per non sentirsi sola in quelle giornate lunghe come anni Vivian ha ben poco, le voci dei vicini al di là della parete o le stoviglie: "A tavola / per non parlare da sola / ha parlato con le sue posate / per tutta l'infanzia". L'affetto è un risotto in bianco mangiato in casa d'altri. Si è semDre detto che i poli tra cui si accende la scintilla di questa poesia sono la ferita e la fiaba, il dolore e la filastrocca, lo spavento e la ninnananna ipnotica e tranquillizzante. Sarebbe troppo facile ora confermare questo giudizio. Questo è un libro ambizioso. È complesso e vuol essere complessivo, squadernare tutti i temi di una poesia ancora in gran parte inedita. La musa dialettale e quella politica, le poesie per i "nuovi milanesi di colore". L'amore perduto nel garbuglio familiare. L'amore mancato, il transfert fiabesco per il dottor B.M., lo psicoanalista junghiano già muto protagonista del Signore d'oro, del Signore degli spaventati, delle Poesie dando del Lei: "H fiume Po da Lei amato / ho sognato. / Scorreva / ma all'indietro / Lei era un bambino attento / un poco ombroso / guardava il fiume Po / silenzioso". L'amore conquistato: una famiglia propria, la grazia nel descrivere la nascita di un'intimità: "Era dicembre. / In gennaio / a casa tua / mi salutava già la portiera". La morte. È la morte la protagonista assoluta del libro: "This quiet Dust / was Ladies and Gendemen", è la polvere di Emily Dickinson a regalarci il titolo. Come si può parlare della morte in modo non retorico e non crepuscolare? Come si può parlare della morte con i pensieri di un bambino e la voce di un adulto? "Era gentile, stava alla finestra / aveva un canarino, aveva i suoi millesimi / condominiali, guarda gli stanno spuntando / le ali". Come si può rifiutare la morte, alla Elias Ca-netti, ma vezzeggiandola come un cane ringhioso ai giardini pubblici? Una quieta polvere, il poemetto che sta al centro del libro, intarsiato di citazioni-karma, dalle fiabe (Afana-sjev, i fratelli Grimm, Andersen) a Lewis Carroll a Emily Dickinson, da Marina Cvetaeva a Lucio Klobas ali 'Ecclesiaste, è fatto di brevi spezzoni che ritornano leggeri e ossessivi: "il mattino dopo che si è morti / non ci si può svegliare / la vita è finita/è incominciata la morte". È il diverso montaggio di questi frammenti lapalissiani e terribili a creare davanti a noi la varietà del paesaggio, l'attonito inverno della mente che pensa la morte. Così si vince la morte: ripetendosela, biascicandola sulla lingua fino a ridurla in una poltiglia di frasi infantili e inesorabili, provando orrore per la sua ovvietà. La morte è un pensiero ripetitivo, è una mosca che cozza cento volte in un pomeriggio contro lo stesso vetro: "io lo so dove andare / conosco certi luoghi / dove l'amore mio col suo profilo va". Vivian Lamarque non si racconta le favole per consolarsi dei suoi dolori, ma si racconta il suo dolore come se fosse una favola. La sua non è una poesia da e per bambini. Sa sospendere sulla pagina le osservazioni "da bambini" con la grazia di un vecchissimo e filiforme artigiano. Perciò i versi conclusivi delle sue poesie hanno quell'effetto di rasoiata leggera: "La notte dei gattini / ti ho voluto del bene in più. / La notte dei gattini? / Sì, abbandonati come bambini". Al suo meglio, Vivian Lamarque è leggera, fulminante. Qualche volta si lascia andare e bamboleggia. Nel dolore privato le sue note sono limpide e ferme. Nel dolore pubblico (la guerra, il razzismo piccoloborghese contro tutte le nuove povertà) quelle stesse note diventano querule, forzate. Quando eccede nella prosa scrive degli haiku dal ritmo imprecisabile, con poche parole semplici ma indecifrabili come geroglifici. Per esempio lascia dubbiosi il brano d'apertura Era la casa, che pare un sogno trascritto in fretta al mattino per lo psicoanalista, incespicando sulle parole e buttandoci sopra una manciata di punti e di virgole come vien viene. O un brandello di memoria tirato fuori con una sola emissione di fiato durante una seduta. È sempre intorno a quel lettino che si aggira la poesia di Vivian Lamarque, sempre nei paraggi di quel nido per gli Spaventati. Eppure, sembra che a questa Spaventata manchi il più importante tra gli spaventi che conducono a quel rifugio: 10 spavento di se stessi. Manca tra tanti spaventi e privazioni d'amore la paura che, una volta conquistato, l'amore possa finire: l'amore dipende solo da chi ama, e in questo libro 11 poeta ama in modo inalterabile, in eterno. Er amore dello Spaventato a vincere la morte. Se a qualcosa somigliano, queste poesie somigliano un po' alle fiabe e ai racconti autobiografici incantati e crudeli che Elsa Morante (altro scrittore alle cui origini c'è una contorta vicenda familiare) pubblicava, poco più che adolescente, sul "Corriere dei piccoli". Invece che i ragazzini, il mondo lo salveranno gli Spaventati? Alessandro Fo, Bucoliche (al telescopio), con cinque tavole di Luigi Civerchia, Una Cosa Rara, Cremona 1996, pp. 25, Lit 15.000. L'ambizione di Fo, come già la prima sua raccolta poetica (Otto febbraio, 1985) testimoniava, è quella di fabbricare alla poesia uno spazio abbastanza caldo e confor- tevole perché la nobile Signora possa lasciarvisi intravedere. Con grande cura egli tenta di riportare tutto il lavoro necessario a questo scopo dentro i confini di quel che Freud chiamava heimlich, e cioè "appartenente alla casa", fidato, quotidiano e protettivo. Sarà poi la poesia stessa, irrompendo nel bel mezzo di questo circolo domestico, a stravolgerne i contorni. Rovesciato nel suo contrario esatto -Yunheimlich, il "perturbante" -anche il giardino dei giochi d'infanzia può allora diventare teatro di una condanna (o piuttosto un'investitura) senza scampo. Accadde così al pastore Damone, protagonista dell'ottava bucolica virgiliana, quando a soli dodici anni vide per la prima volta nell'orto di casa la donna che avrebbe amato fino alla morte. Era accaduto prima di lui alla povera Simeta, che nel secondo idillio di Teocrito s'improvvisa maga e per mezzo di inutili filtri tenta di riavere l'amore perduto di Delfi. Dopo costoro e dopo altri mille, accade anche al dodicenne dell'ottava bucolica di Fo, intento a giocare in un giardino torinese che "girava intorno al ciliegio". In questa storia di inconsapevole citazione la parola non ha alcun ruolo diretto: 0 Soggetto adolescente di Fo non ha ancora letto né Virgilio né Teocrito. Valga per prova, sia pure di un miracolo d'infanzia. È il fiume del tempo vissuto a operare l'innesto, in silenzio. La poesia-animale, quella cioè che respira in tutte le possibili estensioni dell'anima, non nasce subito alla storia (alla scrittura-documento). Anzi può persino non nascervi affatto; del resto il tempo classico in cui Virgilio si intratteneva con lei in libera familiarità, in cui lo spazio bucolico era accettato per vero e l'ozio accordava ai sensi la massima libertà di cui possano godere, è notoriamente scaduto per sempre. In un giorno qualunque, purché libero (o liberato) dalla stretta intimidatoria del lavoro, accade però che alcuni microawenimenti - ad esempio la composizione del presepio domestico - diano origine a una simmetria propizia al colloquio. Si intravede il modo di salvare qualcosa della nostra parola quotidiana, di scrivere l'esistenza gettata via. Allora, la siderale distanza dalla quale i poeti moderni devono accontentarsi di contemplare la loro Donna Poesia potrà essere affrontata. Servirà un telescopio, ma potente abbastanza da alimentarsi dell'energia dei fatti più minuti, i fatterelli che nessuno pensa di raccogliere, tanto meno se li sta vivendo. La cassa integrazione, ad esempio, penetrando nel cuore di un piccolo fortilizio domestico che si credeva sicuro, può trasformare un ex dipendente modello in esule disperato, inconsapevolmente gettato sulla traccia di luoghi letterari mai frequentati. "Vado un po' in giro, per passare il tempo. / La sera torno a casa, il mio regno / che se ne va in frantumi" -dirà l'uomo senza nome della prima bucolica, nuovo Melibeo espropriato di casa e campicello, al suo più fortunato amico, che invece ha conservato il lavoro e perciò compra tranquillamente nuove statuine per il suo presepe. E alla nona, L'uomo sotto l'albero, ritroviamo forse lo stesso personaggio, ancora assorto, contro la sua volontà, a ridar vita alla corrispondente bucolica virgiliana dell'esproprio. L'intero componimento andrebbe citato per intero, perché non è possibile rompere l'equilibrio delicato e magistrale di questo periodo unico, fatto di schegge metriche e prosodiche lanciate al ritmo di un respiro non tranquillo. "Seduto sul giornale spiegato / per non sporcare il vestito / il tronco / al tronco / impenetrabile / fermo ma vivo // dov'è più vivo / il traffico intollerabile / della città serale / lui, culmine assurdo del paesaggio / intuito / varcando in motorino l'ora di punta, di passaggio; / forse si è stufato / l'auto abbandonata di lato // così, senza alcun apparente significato / sotto l'ampiezza del faggio, a guardare / dal clivo". Avanguardie incoscienti di Enrico Cerasi "Il quadro... dell'attuale periodo enunciato in termini da scheda, potrebbe essere il seguente: carenza di una 'gnosi' unificante il mondo" - così scriveva Pasolini nel 1954 (ora in Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, Einaudi). A questa oggettiva carenza, che oggi attraversa tutti i generi della produzione letteraria, la manifestazione "Venezia poesia" (Venezia, 2-8 luglio 1996) ha cercato a suo modo di dare una risposta. In una sede istituzionale anche se continuamente ammiccante all'on the road, Nanni Galestrini ha raccolto le personalità artistiche (circa cinquanta) che meglio si inscrivono in una tendenza di neo-avanguardia. Per citare qualche nome: Sanguineti, Pay, Lebel, per la sezione poetica. Ma, accanto a questa, o meglio intrecciata a questa (perché l'idea è di promuovere la collaborazione di musica, poesia e nuove tecnologie, in direzione di una rinnovata "arte concreta"), c'era anche un interessante controcanto musicale, con Luciano Berio che ha proposto l'opera A-Ronne (1974-75) scritta su testo di Sanguineti, o il bravo jazzista ungherese Yanchkó Saffer, che si è esibito in un duetto con Lebel. La sezione musicale, molto ricca, ha proposto anche alcuni gruppi del rap italiano d'avanguardia, accanto al duetto di Stefano Bassanese (musicista sperimentale) con il soprano Colette Hochain, su testi di Volponi, Luzi e altri. Si capisce che non sono state poche le occasioni di interesse: e ci si augura davvero che, come nelle intenzioni di Balestrini, l'iniziativa sia confermata per gli anni avvenire. Tuttavia, è proprio sul presupposto, diciamo così, teorico che sono emersi dei dubbi. Perché se da un'interessante rassegna si passa a una proposta poetica - passaggio che lo stesso Balestrini sollecita-, è difficile vietarsi la considerazione di quanto l'avanguardia stia diventando, all'ennesima riproposizione, sempre meno innovatrice e scandalizzante. Il lancio dei volantini dalla Torre dell'Orologio in piazza San Marco, ad esempio, non è stato fatto (causa mal tempo), sì che la rassegna è iniziata in modo più sommesso, ma siamo sicuri che, se anche avesse avuto luogo, una tale riproposizione futurista non avrebbe turbato proprio nessuno. Ha colpito invece, almeno per quanto mi riguarda, un'accentuazione fortemente primiti-vìsta o anticulturalistica dei contenuti. Penso alla mostra fotografica di Antonio Ria, "La tribù dei poeti" (!), dove si legge: "[il] mondo dei poeti, un po' come i pellegrinaggi e i raduni delle manifestazioni religiose popolari". E una didascalia in merito spiega: "Verrebbe fatto di pensare alla cecità come possibile immaginativa: il momento precedente al rinvenimento di un'immagine immersa nel suo liquido amniotico". Ma penso anche alla poesia Tutto come già visto (!) di Rita Degli Espositi - John Gian: "zona selvaggia / film come una vita / come parte di un tutto unico". Ma è un contenuto presente anche nelle parole di Luciano Berio, a proposito di A-Ronne: "Il senso musicale di A-Ronne è primordiale". La sensazione è che si suggerisca che tutto ciò che pertiene alla mediazione intellettuale, alla "coscienza" ("non è una questione di coscienza", Degli Espositi - Gian), sia di per sé sospetto, o comunque vecchio, passato di moda. E non è una bella sensazione.