OTTOBRE 1996 « quelli dell'anima. E per farlo ricorre a quelli che sono i suoi strumenti preferiti, e cioè la descrizione di piccoli microcosmi alla deriva (come nella Zattera di pietra, Feltrinelli, 1988), accompagnati da un cane, che stavolta, fedele alla logica oculare del romanzo, è semplicemente il cane delle lacrime. Infine una nota sul titolo: Emaio sobre a cegueira. Un saggio, così come altri suoi romanzi sono stati libri di storia, memoriali, manuali e addirittura vangeli. Una chiave di lettura indicata da Saramago stesso (che anche stavolta ha prima pensato il titolo e solo dopo il libro), di cui il lettore italiano viene privato per scelta dell'editore. Ma si sa, viviamo in un mondo di ciechi, dunque adeguiamoci a procedere a tastoni. Tornare a Selim di Anna Chiarloni Sten Nadolny, Un dio dell'impudenza, Garzanti, Milano 1996, ed. orig. 1994, trad. dal tedesco di Giovanna Agabio, pp. 222, Lit 30.000. Con il suo secondo romanzo La scoperta della lentezza (Garzanti, 1988), tradotto in dodici lingue, Nadolny era stato festeggiato come degno successore di Heinrich Boll. Né il romanzo successivo, Selim o il dono della parola (Garzanti, 1991), aveva deluso la critica europea, tanto che in un recente volume sulla prosa tedesca contemporanea (Neue Generation. Neues Erzahlen, West-deutscher Verlag, 1993) Petra Giinther definisce con un certo orgoglio la narrativa di Nadolny come prodotto tedesco di sicura esportazione. E tuttavia, malgrado la scintillante traduzione di Giovanna Agabio, quest'ultimo romanzo fa pensare a una bolla di sapone. Magari di marca europea, visto che dentro c'è di tutto, da Venezia ad Atene, via Monaco e Vienna. Dalla ex Ddr alla Francia, con omaggio reiterato a Gianna Nannini e puntata finale nel conflitto dei Balcani. L'avvio è mitologico: Ermes, dio di un'impudenza che è amore della verità, cala sul mondo di oggi con lo sguardo degli antichi e di tutto stupisce: della spazzatura che costella il paesaggio greco, come dei rubinetti o della cerniera sui calzoni. E di tutte quelle "tartarughe di vetro con le ruote", e nei musei le statue con la foglia di fico, e poi quell'affannarsi alla ricerca di lavoro, "un tempo riservato agli schiavi"... All'inizio il gioco è divertente, ma dura poco. Anche perché Ermes ha il dono di saltare dentro gli umani passando per l'orecchio. E siccome non sta mai fermo, è tutta una girandola postmoderna di personaggi, un migrare da un corpo all'altro senza grande costrutto. S'intravede persino Ernst Jiinger, nei panni del dio Ares, finché l'autore stesso ci fa capire — ma siamo già a pagina 153 — che non sa dove andare a parare. Meno male che c'è Efesto, deus ex machina narrativo: il dio del fuoco è qui un volgare manager con tanto di grucce d'oro che intrallazza a livello mondiale dando così a Nadolny la possibilità di argomentare sul nostro sciagurato crepuscolo degli dèi. Ma "le buone intenzioni" — per citare il titolo delle lezioni di poetica del 1990 —- non bastano. Meglio tornare a Selim, ora disponibile anche in edizione economica. Johann Peter Hebel, Storie di calendario, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Marsilio, Venezia 1996, testo tedesco a fronte, pp. XXXVII-328, Lit 29.000. Le storie da calendario sono un genere letterario che salvo errore alligna solo in Germania grazie al fondatore Johann Peter Hebel (1760-1826) fino a Bertolt Brecht e Walter Benjamin, mentre all'estero furono largamente ispirati da Hebel, di cui era grande ammiratore, soltanto I quattro libri di lettura di Tolstoj. La matrice è infatti internazionale, è quella dell'almanacco o lunario tipo "Pescatore di Chia-ravalle", destinato al contadino, che oltre al calendario conteneva notizie utili e storielle edificanti. Ma solo in Germania, dove pure ci si era già cimentato Grimmelshau-sen, l'autore del Simplizissimus, il genere trovò la sua forma classica, e non per nulla il suo creatore, il prelato di Karlsruhe Johann Peter Hebel, autore anche di pregevoli poesie in dialetto alemanno, fu molto apprezzato da Goethe. Hebel fu incaricato dal Margravio del Baden Carlo Federico di redigere una pubblicazione simile che ebbe il titolo Der rheinlàndische Haus-freund (L'amico di casa renano) e uscì dal 1807 al 1815. Nel 1809 il famoso editore Cotta di Tubinga, Nota bene di Cesare Cases l'editore delle opere di Goethe, fece un'antologia delle annate sino allora apparse che ebbe grande successo col titolo di Tesoretto e fu più volte aggiornato e ristampato. Abbiamo già segnalato nelT'Tndi-ce" (1989, n. 8) la traduzione italiana completa di quest'operetta a cura di Alberto Guareschi. Ma alla difficile impresa di una versione pensavano già altri, tra cui il noto germanista fiorentino Giuseppe Bevilacqua, se è da riferire a lui la perifrasi, anch'essa tipicamente he-beliana, su "chi da più di vent'anni si ostina, sempre rinunciando e poi riprendendo, a voler tradurre Hebel", come si legge nell'introduzione alla nuova scelta. Ne valeva la pena, poiché provando e riprovando Bevilacqua ci ha dato il migliore strumento per leggere Hebel, perché nella sua scelta esclude tutti i brani di carattere didascalico, spesso commoventi ma sempre alquanto superati ("Come preparare un buon inchiostro" e simili) e insiste su quanto riflette quel "giusto mezzo tra realismo e metafisica" in cui il curatore scorge a buon diritto l'essenza dell'arte narrativa di Hebel. Realismo e fantasia sono infatti le due dimensioni della vita popolare. Il tono didattico si può giustificare solo all'incrocio dei due. Hebel è sempre minuziosissimo nei particolari per renderli credibi- li al suo pubblico, ma poi le sballa grosse con l'aiuto di qualche essere misterioso, che poi tanto misterioso non è, come gli spettri di un vecchio castello che in realtà sono falsi monetari. Anzi l'autore ha una segreta complicità con gli imbroglioni e perfino con i ladri che lo aiutano a mettere in guardia i lettori contro la propria dabbenaggine. Il fine che egli persegue attraverso la sua pedagogia non è un generico perbenismo, ma un mondo illuminato dalla coscienza e incarnatola qualche sovrano legittimo, che sia Napoleone o Giuseppe II. Questo mondo in cui si scontrano vizi e virtù, prove di coraggio e di codardia, di fedeltà e di tradimento, è un mondo sostanzialmente immutabile e acronico, come nella storia forse più famosa del libro, secondo Goethe addirittura "la più bella storia del mondo", quella di Insperato ritrovamento, la storia della centenaria che ritrova il fidanzato seppellito nelle miniere di Falun. Le storie di Hebel terminano spesso con un "nota bene! " non di rado ironico e falsamente pedagogico. Anche noi vogliamo terminare con un notabene per l'editore: quando pubblichi un libretto piccino, ma di tanto peso e così ben stampato e curato, perché non ci aggiungi almeno un indice delle storie? N. 9, PAG. 17 schede Rose d'India. Racconti di scrittrici indiane, a cura di Virginio Vergi ani, e/o, Roma 1996, pp. 110, Lit 16.000. Sette racconti di altrettante scrittrici - Manjula Padmanabhan, Shalini Saran, Anita Desai, Githa Hariharan, Bulbul Sharma, Bharati Mukherjee, Vishwapriya lyengar - compongono l'ultimo volumetto di Rose (cfr. "L'Indice", 1995, n. 9). Racconti significativi e intensi che ben ci introducono all'universo tematico e simbolico della narrativa indiana e invogliano a una più ampia lettura sia delle autrici in questione - tra le quali sono per ora disponibili in traduzione italiana solo Desai (Donzelli e La Tartaruga) e Mukherjee (Feltrinelli) - sia, più in generale, degli scrittori del subcontinente indiano. Ci sono qui i tempi e i luoghi dell'India, ma immersi in una vitalissima contemporaneità, fuori da qualunque stereotipo: nelle minuscole abitazioni umanissimi eventi quotidiani si succedono sì nel rispetto reciproco, ma anche con il necessario sarcasmo, e perfino una divertita trasgressione nei confronti di un destino che ci vorrebbe totalmente passivi; la paziente peregrinazione in uffici dove si aspetta il proprio turno per richiedere un attestato di nascita o di morte o di trasmigrazione dell'anima si rivela infine per quello che è, il lungo sogno di una donna con il suo concretissimo corpo e il suo oggi davanti a sé; l'apparente sentimentalismo della ragazzina che, in collegio, aspetta una lettera dalla madre, riesce a nascondere per poche pagine soltanto un "crudele dato di realtà: quando ci è sottratta la lingua materna, ci è sottratto anche l'affetto che solo in quella lingua riesce a esprimersi. Anna Nadotti Maria-Antonia Oliver, Joana E., Bollati Boringhieri, Torino 1996, ed. orig. 1992, trad. dal catalano di Anna Baggiani Cases, pp. 226, Lit 30.000. Joana E. ha sessantanove anni, è una simpatica signora dall'aspetto ancora giovanile, quando nel 1979 incontra a Barcellona la scrittrice catalana Maria-Antonia Oliver. Le racconta la sua vita e ride divertita all'idea della narratrice di farne un romanzo. Dall'incontro fra due donne nasce così, anni dopo e in seguito a una lunga e travagliata gestazione, un libro di successo che l'ispiratrice non ha la fortuna di vedere perché nel frattempo muore di cancro. Ambientato negli anni trenta e quaranta nell'isola di Maiorca, in una Spagna segnata dalla guerra civile, Joana E. è la storia della sfortunata vita di una ragazza di buona famiglia. Tra disgrazie e dolorose scoperte - la morte dei genitori, un matrimonio di convenienza, la schiavitù presso una zia-matrigna terribile, la scomparsa improvvisa del grande amore di una vita - scorre l'esistenza di Joana. La Oliver narra in prima persona, spostando spesso le coordinate temporali, con uno stile intimistico che di rado lascia spazio agli avvenimenti del mondo esterno: ne scaturisce il diario di una donna segnata dalle avversità e che soltanto in età matura riuscirà a riscattarsi. In tutto il libro si percepisce la presenza del grande romanzo inglese, sia nel chiaro richiamo alla Jane Eyre di Charlotte Brontè, sia nella scelta di accorgimenti letterari che ricordano, a volte, Virginia Woolf. Roberto Gritella